Regia di Liliana Cavani vedi scheda film
Nessuna cosa umana può essere cancellata completamente e al mondo c'è troppa gente perchè certi fatti non si risappiano: qualcuno resterà sempre in vita per raccontare. (Hannah Arendt)
In uno spaccato storico in cui il nostro cinema possedeva ancora il coraggio di proporre formule espressive forti, Il Portiere Di Notte (1974) si è ritagliato uno spazio singolare che ha contribuito all’affermazione della regista Liliana Cavani che ha realizzato un’opera in piena autonomia e lontana da qualsiasi ideologia, elemento quest’ultimo affatto usuale per l’epoca. Il contenuto del film, scomodo e provocatorio ha rappresentato il punto più significativo dell’autrice che subì all’epoca gli strali della censura capace di ridurre la profondità del dibattito intorno ai suoi temi dominanti per una provinciale questione su di una scena di sesso peraltro castigato. Vienna 1957, Max un ufficiale nazista sfuggito al giudizio del dopoguerra lavora sotto copertura come portiere notturno in un hotel. Incontra Lucia, un’ebrea sopravvissuta al lager con la quale ebbe in quel frangente una relazione amorosa, il loro riavvicinamento si rivelerà devastante. Il tema portante del film che ha indirizzato tutte le chiavi di lettura ha considerato il rapporto vittima carnefice come dato imprescindibile, la regista stessa rivelando la sua fonte di ispirazione ha sempre citato un’intervista che lei fece (all’interno di un vasto lavoro di documentazione per la Rai) con una donna partigiana sopravvissuta ai campi di sterminio, la quale raccontava di recarsi ogni anno sul luogo dove fu tenuta prigioniera e trascorrervi le sue vacanze. Dal senso di colpa delle vittime per non essere morti insieme agli altri, alla “banalità del male” degli sterminatori sono stati versati fiumi d’inchiostro e di parole su quell’abominio ma la regista prova a immaginare uno scenario neanche improbabile ma fino allora indicibile e mai manifestato in quel modo. Il gioco perverso tra la vittima e il suo aguzzino oltre che ad uno scambio di bisogni psicologici e fisici, viene avvalorato da una scala sentimentale perversa capace di spostare l’asse dell’attenzione dalla particolarità storica ad un frammento di vissuto senza regole e senza limiti capace di trasmettere lo squilibrio del sentimento come un’oggettività in grado di annullare qualsiasi influenza. Al di là del bene e del male, il tentativo di resurrezione di Max e di Lucia supera ogni barriera morale, fa riflettere sulla potenza del desiderio amoroso e vorrebbe proiettarli verso una normalità che dovrebbe accoglierli. Gli ex camerati di Max che invece stanno rielaborando un processo di autoassoluzione che non prevede la presenza di testimoni, per la Cavani equivale ad una condanna storica sulla rimozione silenziosa degli obbrobri nazisti riguardanti il periodo post bellico. Memoria storica e rimorsi interiori vengono alle prese con una nuova e inaspettata fragilità del bene che sovrasta i due personaggi votati all’autodistruzione. La regista per fare ricongiungere e dissimulare l’amore da ricordo tragico e assolutezza del male sembra attivare tre percorsi del possibile, rimozione, negazione e riconoscimento.
La rimozione. Il legame amoroso non contempla nessun riferimento al passato nonostante i loro corpi siano materia assoluta appartenente ad un evento preciso, i due amanti gli conferiscono un valore immediato e attuale, il loro rapporto quasi privo di parole è impregnato di una visceralità passionale e urgente dentro il quale non si realizza il ribaltamento di ruolo ma la messa sullo stesso piano dei due protagonisti. Con indovinati flashback ripercorriamo il momento in cui si conoscono, le angherie subite e la sofferenza, ma pur immaginando quale potesse essere la potenza ricattatrice dell’uomo ne percepiamo la debolezza e l’ambiguità.
La negazione. Nella disadorna casa di Max che li riunisce ricreano quel modello chiuso e opprimente del lager che dovrebbe rieleggere i due protagonisti come nuovi soggetti sociali, ignari del resto del mondo e bastanti a loro stessi nel nome dell’isolamento del loro attaccamento. Essi rifiutano qualsiasi altro contatto umano, incapaci di smettere di amarsi, mascherati da una attrazione straziante, votati allo sfinimento in modo da realizzare la cancellazione del passato. Nutrendosi di un amore disperato ne celano le ragioni indotte che hanno favorito o obbligato quel rapporto consenziente.
Il riconoscimento. I due protagonisti dopo avere ritualizzato i canoni dell’amore rinascono agli occhi del mondo come se percorsi dalla purezza di un sentimento potessero diventare i riconciliatori del mondo decadente che li circonda. Per questo diventano pericolosi agli occhi di chi invece vuole occultare la verità. Una scena altamente drammatica e simbolica li vedrà impegnati in una vestizione nella quale ricopriranno niente altro che quello che sono e che li destina ad affrontare l’esterno e il giudizio del mondo.
Una citazione d’obbligo va ai due indimenticabili protagonisti, a Dirk Bogarde nei panni di Max, l’attore inglese che con Il Servo (1963) caratterizzò un personaggio unico e inscindibile che ha segnato la sua carriera con un tratto ambiguo e disilluso e che non abbandonerà mai. Nel ruolo di Lucia, una folgorante Charlotte Rampling destinata a diventare una vera e propria icona, tormentata, spigolosa e perfetta per un personaggio che anche controvoglia le resterà cucito addosso a lungo.
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