Regia di Gianni Amelio vedi scheda film
Le porte vanno chiuse, quando è necessario, se per proclamarle aperte bisogna a tutti i costi uccidere Caino.
Tommaso Scalia, colpevole di triplice omicidio premeditato, fu giustiziato nel 1938 a Palermo dopo il processo di appello che commutò in pena capitale la condanna all’ergastolo comminata in prima istanza.
Il giudice a latere Di Francesco, quello del primo processo, nel frattempo era stato trasferito in una pretura di montagna. Non avrebbe più intralciato, così, il corso della giustizia con assurdi cavilli contro la pena di morte, in combutta con giurati deboli, imbottiti di strane letture tipo Delitto e castigo.
Si chiude così Porte aperte, con una breve didascalia su come poi sono andate a finire le cose.
Ma il giudice Di Francesco lo sapeva che sarebbero finite così e l’aveva detto al giurato di campagna, proprietario di una straordinaria biblioteca (7000 libri!) ereditata dal marchese di Salemi a cui il padre aveva fatto da amministratore.
“Gli archivi del Tribunale di Palermo scoppiano di faldoni, morti che hanno condannato morti, e nulla è mai cambiato” dice il giudice, stanco, all’uomo semplice, quello che ha usato le parole di Dostoevskij per opporsi alla pena capitale (“Quando non abbiamo le parole andiamo a cercarle ”).
E quest’uomo semplice parla al giudice della vite che, anche se sradicata, lascia sempre qualcosa di sè nella terra, e un giorno, chissà quando, spunterà una nuova piantina.
Quel giorno, in camera di consiglio, il giurato aveva obiettato al Presidente del Tribunale, che dava ormai tutto per scontato: “Signori, condannare a morte qualcuno in chiacchiere da bar è un discorso, mettere la mia firma di giudice è un altro. La discussione comincia ora”.
Amelio e Cerami, nel mettere in scena il libro di Sciascia, ne hanno mutuato il tono di severa meditazione sulla morte e sull’uomo che si erge a giudice e la contestualizzazione del fatto (anno XVI dell’era fascista) nulla toglie alla costante attualità del problema che affrontano.
Il dialogo, scarno, essenziale, segue gli snodi della vicenda, nella prima parte segnata dai tre omicidi a sangue freddo di Scalia, nella seconda dal processo, che mette a nudo la lucida follia dell’imputato
(un Ennio Fantastichini capace di metamorfosi strabilianti da impiegatuccio servile a spietato assassino, fino a galeotto pazzoide e catatonico) e la supina acquiescenza dei magistrati al perbenismo cinico di una società che proclama il sacrosanto diritto a vivere tranquilla e dunque la necessità di togliere di mezzo gli elementi di disturbo alla quiete pubblica.
Unico, nel suo silenzio, nel volto scavato e attento, il giudice Di Francesco, un Volontè magistrale nel calarsi nel personaggio e renderne palpabile la tensione civile e la stanchezza esistenziale, dà l’unica risposta possibile al collega che sollecita il suo parere: “ La pena di morte non è affare della giustizia ma della politica”.
Poche parole, nessuna enfasi tribunizia nei suoi interventi, nè crociate brandendo crocifissi.
La sua è la voce della retta ragione umana, e non può che proclamare la verità, umana, anch’essa, ma è quanto basta.
Alla sua si unisce quella di un uomo che è ancorato alla terra, ai suoi ritmi ancestrali e alle sue leggi eterne, non scritte, il giurato contadino che gli legge le pagine di Dostoevskij sull’uomo che aspetta il colpo della mannaia sul collo, mentre i colori caldi, forti, dorati della campagna siciliana, che il sole inonda fra eucalipti e basse eriche, arrivano, improvvisi,a rischiarare le ombre dense di interni da cui la luce sembra esclusa per sempre e penetra solo la sottile tessitura sonora di un flauto.
Le porte vanno chiuse, quando è necessario, se per proclamarle aperte bisogna a tutti i costi uccidere Caino.
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