Regia di Lenny Abrahamson vedi scheda film
Dopo i primi riconoscimenti ottenuti con Garage, e prima del grande salto internazionale con Frank e soprattutto Room, Lenny Abrahamson racconta una storia di passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta con prevalenza di estratti drammatici.
Lo fa con buona capacità di visualizzare i personaggi e l’ambiente che li circonda, attraverso questioni morali che deflagrano senza bisogno di troppi commenti ma facendo rivivere tematiche che faticano a trovare una dimensione propria (con possibili paragoni che non lo vedono in prima fila).
Dublino, Richard Karlsen (Jack Reynor) sta vivendo felicemente l’estate che lo separa dall’inizio dell’università.
Tra feste con gli amici di sempre e l’amore sbocciato con Lara (Roisin Murphy), tutto sembra andare per il meglio, quando una notte, spinto dalla gelosia e dall’orgoglio, è protagonista di una rissa dai risvolti impensabili.
Improvvisamente, quella leggerezza che caratterizza le sue giornate, lascia spazio a un macigno che gli impedisce di pensare a qualsiasi altra cosa.
È questione di attimi. L’adolescenza se ne sta già andando per i fatti suoi, ma un incidente, inteso come errore fatale, fa sì che lo sconforto e i tormenti sopravanzino quella felicità che sembrava inscalfibile, proponendo una sfida con se stessi troppo grande per essere superata dall’oggi al domani.
Lenny Abrahamson inquadra un momento ordinario di allegria e spensieratezza che lascia il campo a diatribe che invadono già la cronaca (nera) di tutti i giorni; è meglio levarsi un peso terribile confessando una verità che ti potrebbe rovinare per sempre o lavarsi la coscienza dietro la menzogna e il silenzio?
Fin troppo facile dire quale sia la cosa giusta da fare quando si osserva dall’esterno, ma nel giovane protagonista, l’istinto di sopravvivenza si scontra con la necessità di svuotare il sacco, moti interiori spingono in direzioni opposte, mentre il pensiero diventa occludente.
La descrizione è attenta, le tante parole concesse in libertà lasciano la passerella ai silenzi, gli stati emotivi si alternano, arrivando molto vicini alla sovrapposizione, all’insegna di una sorta di limbo mentale che non concede più alcuna facile soluzione, che si può allontanare per una parentesi di tempo, ma che poi ritorna, forse anche più forte di prima.
Nessuno può risolvere la questione se non il protagonista stesso, sul quale, come già il titolo stesso lascia intuire, vengono concentrate tutte le attenzioni (se non per la scena più commovente, in chiesa, con una madre disperata che supplica di conoscere la verità) e Jack Reynor, in seguito coprotagonista di Transformers 4 (certamente, non un’occasione per confermarsi come attore in levare), riesce a trasmettere spavalderia e sconforto.
Se ci riesce, è comunque in prima istanza merito di Lenny Abrahamson che esplora ciò che si cela sottopelle, tra inevitabili meschinerie e sincere sofferenze, con alcuni parziali demeriti; poco contorno nel frangente più drammatico, troppa semplicità nel rendere credibile un’omertà generalizzata e l’aver affrontato tematiche che al cinema vantano parecchi termini di paragone senza elevarsi in maniera lampante.
Comunque, consono per stimolare un momento di riflessione (e discretamente incorniciato).
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