Regia di James Mangold vedi scheda film
Quando il gioco si fa duro, Wolverine torna a giocare. E non ce n’è per nessuno.
Ci vuole un po’, in realtà: il tempo necessario all’uomo-Logan di superare una fase di tormento che dura dall’infausto scontro letale con l’amata Jean, che gli compare in sogno chiamandolo a sé. Lui ci pensa, vacilla, quasi capitombola, quasi riescono a scalfirne la mitologica invulnerabilità con l’inganno, per mano di un vecchio amico e di una donna pericolosa (sono cose della vita …).
Aspetto interessante, come viene sviluppato lo spaesamento del massiccio mutante barbuto: a quello semplicemente fisico (la trasferta nipponica che pure porta lontani ricordi) corrisponde, pesante, pressante, traumatico, quello mentale.
Già, i dolori dell’immortale Logan, aventi tutti termine ultimo nell’impossibilità di accettare un’esistenza senza termine e (a maggior ragione per ciò) senza (più un ) senso. Abbocca all’amo come una grossa bestia che non riesce a liberarsi da una rete potente e intricata, intessuta per “aiutarlo” a liberarsi del fardello divino: in realtà altro non è che il piano diabolico d’un morente che non vuole morire e che, forte di enormi risorse, vuol “trasferire” in sé il dono.
Le simpatiche tossine che vengono iniettate al mutante da un pezzo di biondona oncologa ambigua e cattiva, gl’inducono, oltre ad immediati deleteri effetti sulle capacità di autorigenerazione, anche una sorta di fosco stato di torpore psicofisico progressivo; e così gli intermezzi onirici aumentano, e il caos pare dominarne movimenti e pensieri. No, non è abituato a questo, i colpi ricevuti fanno male, le pallottole lasciano segni che restano, il sangue inizia a sgorgare furioso e irriguardoso.
Solo quello che sembra un ultimo desiderio del vecchio amico Yashida (salvato in gioventù dalle grinfie brucianti e nucleari del tristemente celeberrimo ordigno sganciato su Nagasaki), che è quello di proteggere l’ereditiera nipotina Mariko, ritarda la caduta definitiva di Logan.
Gli eventi, il susseguirsi di fatti e piani che poco a poco svelano inesorabili piani di morte, l’affetto crescente per la sventurata (nonché bellissima) Mariko, il ritorno di fiamma di una morale sempre in agguato (dopotutto è un bravo ragazzo che mal sopporta le ingiustizie): ok, Wolverine non è morto, non ancora, malgrado le profezie dell’infallibile alleata Yukio (una punk perfettamente “disegnata”).
Capiti i raggiri, sconfitta la prima armata (gli yakuza ingaggiati per mere questioni politiche ed economiche), il Nostro parte più deciso e cazzuto che mai, animato dal suo ritrovato indomito spirito guerrigliero, alla volta dell’ultima, decisiva battaglia.
Che poi in sostanza si riduce all’antico classico caso dell’eroe che salva la bella principessa (Logan stesso infatti la chiama così) imprigionata nella fortezza oscura (e ipertecnologica): introdotto il mostro rivale, lo scontro è inevitabile tanto quanto l’esito è prevedibile.
Poco male, non che si voglia altro, per carità. Magari scene un po’ più epiche, anche perché il gigantesco Silver Samurai fatto di adamantio, non sembra granché muoversi con naturalezza e credibile “animazione”. Più brillante il duello tra l’odiosa dottoressa/mutante Viper e Yukio: il tifo è plateale per quest’ultima.
Ma in effetti, l’azione non dev’essere stato il motore principale nelle idee del regista James Mangold, che pure sfodera almeno una sequenza elettrizzante (quella dentro e sopra il treno-proiettile) mentre nelle restanti predilige un approccio più “realistico” e gran poco “digitale”: è evidente, dato anche lo script, l’interesse per la complessità della figura del protagonista. Da questo punto di vista, molto “nolaniano”, l’obiettivo è più che raggiunto.
Se c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe, ebbene, è da rintracciarsi nelle potenzialità non sfruttate dell’ambientazione giapponese (ma almeno non si naviga a vista nel mare dei soliti stereotipi) come pure nella definizione incerta di alcuni personaggi alle prese con ruoli non ben chiari (Viper, ma anche il “protettore” Harada). Inoltre, è da rilevare qualche tratto sbrigativo nella stesura della sceneggiatura, che se da un lato è composto di trascurabili disattenzioni dall’altro non riesce ad evitare che le svolte impresse siano intuibili per tempo (in particolare le trame di Yashida: è prevedibile tutto al loro iniziale confronto sul letto di morte del vecchio). A mischiare un poco le carte, comunque, ci pensa la buona trovata del doppio pericolo che insegue Mariko, ed entrambe le minacce vengono dalla famiglia …
Bravi gli interpreti, a cominciare da Hugh Jackman che esegue il compito con la consueta “noiosa” professionalità e aderenza. Molto bravi a caratterizzare i loro ruoli Rila Fukushima (Yukio), Hiroyuki Sanada (il figlio di Yashida), l’”italiano” Haruhiko Yamanouchi (Yashida); mentre è di una bellezza sfolgorante, ammantata di un’irresistibile velo di malinconia, la modella Tao Okamoto (Mariko).
Finale quello dopo la risolutiva e vincente battaglia, quando è ora dei saluti, che non soddisfa: sembra fatto in fretta e con poco costrutto, se non quello di essere il banale preludio all’irrinunciabile post-finale, sui titoli di coda, nel quale si prospetta l’”obbligatorio” sequel avvalendosi di due apparizioni “speciali”.
Wolverine non ha ancora finito di giocare ...
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