Regia di George Miller vedi scheda film
Una sinfonia sfrontata, irrispettosa, violenta, barbara, selvaggia, cacofonica, ridondante, discordante, veloce, insostenibile, è quella orchestrata dall'ormai vecchietto George Miller, che inquadra il deserto con la stessa infantile gioia provata negli anni 80, infischiandosene di una qualsiasi timeline fittizia, accompagnando il rombare dei motori con un'incessante chitarra elettrica seguita da almeno dieci tamburi. Dalla prima, perfetta e geniale inquadratura non si fa ritegno a distruggere generi, topoi che lui stesso ha creato e lancia a velocità impazzita la sua (inesistente) storia su una strada che dà il titolo al film, relegando la trama ad un viaggio ipercinetico, senza pausa o posa, che va da un punto A ad un punto B e ritorno, un infinito inseguimento (verso la fine eccessivamente) che dà adito alla sperimentazione sfrenata, a tratti persino all'avanguardia. Miller si diverte ad accelerare fotogrammi e a portare all'estremo, allo zenith, mettendo, probabilmente, la parola FINE al cinema d'azione in quanto tale. Non tanto perché Mad Max: Fury Road sia una pellicola particolarmente innovativa, ma con il suo sfrenato accumulo, la sua sfrontatezza nell'affrontare fieramente una materia già usurata da tempo, il suo continuo movimento ipertrofico, la sua bulimia di immagini, soluzioni visive mozzafiato e situazioni paradossali, ne fanno la lapide, il punto di non ritorno, lo zenith, insieme a The Raid: Berandal, dell'action in senso lato. Il folle sincretismo della religione dei Warlords, questa ipostasi esemplifica la commistione tra stili, generi (soprattutto il western, forse ancor più dell'azione) e morali che Miller imbastisce, diventando specchio di un universo solamente all'apparenza disordinato, ma in realtà controllato e dettagliatissimo nella sua contagiosa pazzia: mitologie tolkieniane, parallele e tangenti, sconosciute eppure già viste nella medesima saga, perfette nella loro semplicità. Questo è puro postmodernismo digitale, il cinema dopo il cinema, fine di una quadrilogia e nuovo inizio. Esperienza sensoriale e visiva prima ancora che intrattenimento, Fury Road dona ai suoi personaggi un background mai narrato (il passato di Max sembra completamente diverso da quello narrato in Interceptor) se non per immagini, flash, sporadiche frasi (il protagonista più che parlare, grugnisce) o espressioni facciali mostrate o involontariamente celate: Tom Hardy è obbligato per quasi metà film ad indossare una maschera di ferro "dumasiana" che ne oscura il volto, ridotto a sacca di sangue, impotente e muto, infine pronto al passaggio di testimone che Gibson, per evidente questioni anagrafiche, gli ha passato. Un Max Rockatansky demistificato, incapace di centrare un bersaglio a distanza, violento, egoista per necessità più che per indole, ed infine completamente annientato dalla sua controparte femminile: l'Imperatrice Furiosa di Charlize Theron è la vera protagonista, il personaggio più sviscerato, quello più intricato, fieramente femminista, che è di diritto destinata a liberarsi personalmente del villain di turno (Hugh Keays-Byrne, lo stesso dell'iconico cattivo del primo Interceptor, Toecutter), e alla quale è giustamente riservata l'ultima, rispettosa e ammirata inquadratura. Lungi dall'essere un videogame come qualcuno ha detto, anzi: Fury Road è l'esatto opposto, è un film che si nutre ancora dell'odore acre della benzina e quello orticante del fuoco, delle carni squarciate, della sabbia e del sangue, (troppe volte recentemente nascosto sotto una patina digitale), della follia dei suoi personaggi (Max verrà chiamato "fool" più volte), degli stuntmen suicidi e che vive della sua stessa e consapevole epicità.
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