Regia di George Miller vedi scheda film
Valhalla's burning.
La dannata strada per utopici mondi verdi è lunga, letale, polverosa e cosparsa di torbidi liquami ematici, nere miscele distruttrici, esal(t)azioni tossiche e senza speranza alcuna. L'unica via, per la sopravvivenza (parola della "sacca di sangue" chiamata Max, «un uomo ridotto ad un unico istinto: sopravvivere»), è il ritorno. Abbracciando la causa (una causa, dai tratti femminei e residuali sfumature di ribellione-libertà: l'Imperatrice Furiosa e le sue protette), accettando i propri demoni, sfidando un destino che sembra (di)segnato come scuro mosaico di ombre e morte sulla sabbia dorata; e con l'unica arma a disposizione, quella che ti impone di (re)agire anche mentre dentro e tutt'attorno è solo desolazione e miseria: la follia.
E folle è George Miller: questo suo Mad Max: Fury Road - remake, reboot, midquel o qualsiasivoglia altro diavolo di termine, esercizio inutile quanto piantare un seme in lande desertiche - è permeato da una forza brutale ispirata e scientemente insana che lo rende un incendiario componimento epico. Pura poesia in movimento che prende l'action, il post-apocalittico, il western, il revenge movie e ne fa ottani con cui far detonare il racconto.
Ogni cosa brucia, letteralmente e metaforicamente: l'aria e la dimensione morale (il sottofondo, e il passato che non vediamo se non in brevissimi frammenti o in allucinanti forme fantasmatiche, attengono a cupi scenari e pensieri rivolti lucidamente all'oggi), i veicoli vestiti per la guerra e i fantocci di carne ossa e escrescenze purulente (si sa: le conseguenze della devastazione), il ritmo (che deflagra in una sorta di sospensione dei codice temporali) e l'arimetica dell'etica filmica, l'estetica (deviata su deviati registri trash) e la grammatica sonora (frantumata), le barriere della fisica e leggi della dinamica.
Tutto è sovraeccitato, oltre l'immaginazione (la nostra, quella dei comuni mortali), costruito per (de)costruire lo spettacolo a mitragliate di genialate a ripetizione. Non si (rac)contano le sequenze che tolgono fiato, fanno schizzare arterie ed estraggono pulviscono cerebrale per la bellezza e la perfezione cinetica (la tempesta di sabbia, gli impazziti inseguimenti e scontri a fuoco nel bel mezzo del deserto, i corpo a corpo, le scene di massa): vanno viste e vissute, dentro lo schermo.
E se ambienti e scenografie e corpi (di qualsiasi natura) paiono reali(stici) teatri dell'azione (e dell'assurdo), come documenti filmati di un universo parallelo ma tremendamente possibile nelle sue rovinose fondamenta, è perché la mdp traccia traiettorie magistrali nell'iperspazio cinematografico, il montaggio è d'una (luci)ferina magnificenza e l'arte dell'illuminazione catture vette di lirismo ora infernale (gl'infiniti deserti) ora lunare (la notte-limbo virata s'un blu livido) ora macabro (l'ex terra promessa ora paludosa dimora di neri torvi corvi).
A dare, come dire, un tono al film (e i toni sono quelli degli esplosivi terroristici assalti sonori di Junkie XL che trapanano cuore cranio occhi) è un'iconografia sublime e irresistibile, che risiede negli assortiti "abiti di scena", nei dettagli che non ti fai sfuggire (la cintura di castità dentata, i teschi disegnati ovunque, i volanti personalizzati, la museruola di Max, le armi da fuoco), nelle auto e nei mezzi di vario genere, nei "figli della guerra" che pestano su batterie e nel rossovestito tizio schizzato (un po' mummia un po' Marilyn Manson un po' fuori come il principe degli strafatti) che imbraccia e suona una chitarra sputafuoco appeso a delle corde sulla parte anteriore di una specie di grosso veicolo-circo ...
Un freak show popolato di personaggi meravigliosamente folli (memorabile il «Oh what a day! What a lovely day!» proferito da un incredibile Nicholas Hoult in preda a deliri di gloria e Valhalla), di ninfette candide che mai avresti immaginato in luoghi così in mezzo a gente così (sono le "regine" del cattivissimo Immortan Joe, "coltivate" per procreare bambini perfetti, intepretate dalle splendide modelle-attrici Rosie Huntington-Whiteley, Zoë Kravitz, Abbey Lee, Riley Keough e Courtney Eaton), di "madri" (la tribù Vuvalini) che non vedono esattamente di buon occhio gli uomini («ricorda: un uomo, un colpo») ma che si rivelano preziose alleate.
Ed infine, loro (che coppia magnifica!): Max (così si presenta nell'oscuro incipit: «il mio mondo è fuoco e sangue»), reietto con tragedia alle spalle e presente di fantasmi assillanti (i maledetti sensi di colpa), e l'Imperatrice Furiosa, strappata alla propria terra e ai propri cari e desiderosa di vendetta così come di portare in salvo le innocenti giovani donne. Un incrocio il loro, che parte da un corpo a corpo da manuale per terminare con una strana cobelligeranza che avrà un'evoluzione credibile (ultima inquadratura compresa).
Ora, se Max è Tom Hardy, perfetto nell'improbo compito di indossare quei mitici indimenticabili panni (il physique du rôle, certo, ma anche un'intensità interpretativa già ampiamente mostrata altrove), a divorarsi il film e colpire (al cuore, mortalmente) è la Furiosa (l'opera stessa ne dà maggior risalto e spessore, giustamente) caratterizzata da Charlize Theron. Testa rasata, braccio meccanico, attitudine "imperialmente" incazzata-cazzuta, occhi-mondo liquidi abitati da spettri, ombre e impetusosa carica eversiva: Dea destinata a dominare.
Come questo Mad Max: Fury Road tra gli action (i "blockbuster" tutti) a venire.
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