Regia di Carlos Sorin vedi scheda film
Rappresentante di commercio reso precario dai progressi della tecnologia, Marco è reduce da un percorso di disintossicazione dall'alcool al termine del quale ha ricevuto il consiglio di cercarsi un hobby col quale riempire le giornate per evitarsi il rischio di incappare ancora nel vecchio vizio. Così, a cinquantadue anni suonati, decide di cambiare aria e spostarsi dalla natia Buenos Aires a Puerto Deseado, località marittima famosa per la pesca allo squalo, lui che di lenze e mulinelli non ha mai saputo nulla, e che al riguardo limita la propria esperienza a una giornata passata su un fiume diverso tempo addietro. E mentre prende contatto con la guida aspettando il gran giorno dell'uscita in barca, si impegna a realizzare l'altro obiettivo del suo viaggio, quello in realtà più probante: riavvicinare la figlia Ana, della quale non ha più notizie da diversi anni e che, scoprirà presto, da oltre tre ha lasciato la casa dove pensava che fosse per spostarsi ancora, stavolta a Jaramillo, ad oltre cento chilometri di distanza, con il marito José ed un figlio di pochi mesi dei quali ignorava l'esistenza.
Nelle poche righe di sinossi che accompagnano e presentano Días de pesca è racchiuso, sostanzialmente, tutto ciò che al regista Carlos Sorin preme far sapere riguardo al passato del protagonista, ovvero informazioni scarne ed essenziali inserite alla spicciolata all'interno di conversazioni intraprese più per caso che per necessità con un'umanità varia, dalle quali si evince immediatamente ch'egli è tremendamente solo, e relativamente presto che non è stato sempre il tipo pacioso e disponibile che appare ora, e che il matrimonio da cui Ana è nata è naufragato probabilmente per colpa sua, lasciando lei e la donna da cui ha divorziato con un carico di astio non indifferente. La scelta del minimalismo narrativo vorrebbe fare il paio con una spiccata sottigliezza nell'esposizione dei chiaroscuri del suo animo, ma l'alchimia riesce solamente a metà, mostrando presto la corda nonostante una durata di fatto già breve (poco più di un'ora e un quarto).
Sorin catapulta lo spettatore nel bel mezzo della vita di quest'uomo spento alla disperata ricerca di una scintilla rinunciando a fornire dati concreti che chiariscano quelli che sono stati i suoi trascorsi ma preferendo concentrarsi sul presente, mancando però di catturarne appieno l'attenzione per via dell'indubitabile latenza e pigrizia dell'impianto narrativo. Pedinando il personaggio interpretato con misura e garbo da Alejandro Awada, il regista argentino introduce lo spettatore al suo vuoto esistenziale, ma lo fa senza fornire alla propria mano sicura il supporto di un racconto che, se non necessariamente forte, riesca a rivelarsi realmente profondo o solidamente strutturato: l'horror vacui di Marco si sostanzia dunque in un film che, alla medesima maniera, scorre piatto e senza scosse, saggiamente spogliato da derive patetiche ma anche fiaccato da una sorta di atarassia emozionale, e attraversato da una sottotrama (la storia di un manager e della sua pugile alle prese col quarto combattimento ufficiale dopo tre vittorie per knock out) troppo esile per potersi definire più che appena interessante; un film tutto sommato dignitoso, dunque, ma sostanzialmente deludente.
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