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Camion

Regia di Rafaël Ouellet vedi scheda film

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La recensione su Camion

di OGM
8 stelle

Che cos’è la strada. Un luogo in cui si passa distrattamente, ci si incontra per caso, si subiscono svolte inattese, si muore e si rinasce. Per Germain, un tempo, viaggiare significava soltanto trasportare tronchi di legno attraverso la campagna canadese. Un mestiere come tanti, anonimo, ripetitivo, tranquillo e privo di emozioni. Fino a che, un giorno, l’auto guidata da una donna si scontra frontalmente con la sua motrice. La conduttrice, che procedeva controsenso, muore poco dopo in ospedale. È l’unica responsabile dell’incidente, però per Germain quella tragedia cambia, improvvisamente, il volto stesso della vita. D’un tratto si scopre solo, in una casa silenziosa e buia. Ecco che allora prende il telefono e chiama i suoi due figli, che non sentiva da anni. Sono Samuel, che è addetto alle pulizie presso un ufficio, ed Alain, un giovane dall’esistenza nomade che ama le donne e sogna di diventare un poeta. Entrambi sono impegnati, a loro modo, in un cammino che prosegue ogni giorno senza mai condurre ad alcuna meta. Spingere il carrello delle scope attraverso i corridoi deserti. Spostarsi da un motel all’altro, dicendo addio a una ragazza dopo una sola notte di amore. Il circuito non si interrompe fino a che una forza esterna spinge il mezzo fuori dai binari. Germain non ha più voglia di rimettersi al volante. Alain cerca di fargli cambiare idea, lo aiuta a riparare il camion, e così si improvvisa meccanico, sperimentando una nuova, promettente passione. Intanto Samuel, lontano dal posto di lavoro, ha l’occasione di confrontarsi con un passato che l’immobilità del presente aveva sepolto sotto una coltre di indifferenza, di rassegnazione, di insensibilità al rimpianto.  Spezzare la monotonia servirà anche ad aprire la via del futuro, come constaterà al suo rientro. I tre uomini, in fondo, una volta erano cacciatori. Si avventuravano nel bosco per catturare le prede. Era la loro maniera di rischiare e vincere. Un sfida che richiedeva esperienza e strategia. Adesso la disciplina ha ceduto il posto ad un’inerzia senza sbocchi, oppure, al contrario, ad un’instabilità fine a se stessa. Il buio copre ogni cosa, e nessuno costruisce niente. Un atteggiamento di autodifesa impedisce di formulare progetti o, semplicemente, di mettere in discussione lo status quo. L’esistenza si chiude al mondo, come quella parlata québécoise che strizza la lingua francese in un flusso di sillabe soffocate in gola.  È il cupo colore locale che fa da controcanto alla monocorde litania dell’abbandono. Intorno alla sua intima desolazione, il cinema si fa piccolo ed aspro, rivendicando la sua dignità di manifestazione diretta e sincera del sentire umano, di  quello autentico, che si esprime male e non si cura della forma.  Che soffre per il clima, per la sfortuna, per il senso d’inadeguatezza. Che infrange il gelo con un tiepido mormorio di frasi banali. E si accorge che, per imparare ed andare avanti, basta un tocco semplice e leggero, che sposti la realtà appena un po’ più in là. 

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