Regia di David Lean vedi scheda film
Rientra innegabilmente tra i cosiddetti “filmoni”, tra i titoli che hanno fatto storia per chi, come il sottoscritto, è abbastanza vecchio da aver sentito fischiettare e fischiettato il celebre motivo diventato leggendario. Siamo di fronte ad un’opera colossale, accostabile a pietre miliari come “Ben Hur” di William Wyler (1959) o “Lawrence d’Arabia” (1962) dello stesso David Lean, autore di opere cariche di prermi oscar, spesso meritati.
Inserire “Il ponte sul fiume Kwai” nel genere bellico è riduttivo e persino fuorviante. Anche se ambientato negli anni della Seconda Guerra Mondiale, è soprattutto un grande film d’avventura. Di fatto, si divide in due tronconi. Da una parte c’è la vicenda dei soldati e ufficiali inglesi prigionieri dei Giapponesi e costretti a costruire il famigerato ponte, dall’altra seguiamo le peripezie di un detenuto americano che è riuscito ad evadere dal campo, ma che torna indietro con un piccolo commando per distruggere l’opera realizzata. Da un lato, un braccio di ferro di rara introspezione psicologica tra il colonnello inglese Nicholson (Alec Guinness) e il suo carceriere nipponico, dall’altro l’odissea nella giungla di un manipolo di uomini guidati dal comandante “yankee” Shears (William Holden), pronti a sfidare ogni rischio. Non saprei dire quale sia la parte più riuscita. I registri sono diversi, ma accomunati da una eguale e permanente tensione, nonché da una regia che non sbaglia un colpo negli oltre 160 minuti di proiezione.
Nel 1957, effetti speciali e nuove tecnologie cui siamo più o meno consapevolmente abituati non esistevano, era necessario fabbricarli con chiodi e martello oppure andarli a cercare in natura. La giungla birmana, con la sua flora esuberante e aggressiva, supera di gran lunga i trucchetti via computer. La presenza del bambù, vero acciaio della legna, occupa lo schermo, gli stormi di pipistrelli sono da incubo. Anche le riprese aeree sono da capogiro.
Sul piano della recitazione, in un film corale come questo, Alec Guinness si ritaglia la parte del leone. Prigioniero disarmato e in balìa dei suoi carcerieri, capisce immediatamente che il rapporto di dipendenza può essere rovesciato. Il suo aplomb, la sua pazienza e il suo coraggio sono a prova di bomba e il personaggio consente al fuoriclasse britannico di aggiudicarsi un giusto premio Oscar. I Giapponesi hanno bisogno della manodopera dei detenuti, della competenza dei loro ingegneri e tecnici. Tra il colonnello Nicholson e l’ufficiale nipponico si gioca una sottile quanto violenta partita a scacchi che conduce al ribaltamento dei ruoli. Anche se il campo di prigionia resta tale e quale, la sua organizzazione interna cambia mano e gli Inglesi riescono a prendere possesso della cabina di comando. E’ uno degli aspetti più avvincenti del racconto.
Rivedendo il film dopo tanti anni, sono rimasto impressionato dalla quantità di pellicole che, negli anni successivi, che ne hanno tratto ispirazione, ricalcandone atmosfere, contesti e scenari. Mi sono tornati in mente, alla rinfusa, “La grande fuga” di John Sturges (1963), “Papillon” di Franklin J. Shaffner (1973), “Il cacciatore” di Michael Cimino (1978), ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo. In particolare, credo che Sergio Leone vi abbia tratto ispirazione nella scena del sabotaggio di un ponte ad opera di Clint Eastwood ed Eli Wallach in “Il buono, il brutto, il cattivo” (1967). Anzi, direi che l’analogia salta proprio agli occhi.
Quasi 60 anni e “Il ponte sul fiume Kwai” non ha preso una ruga!
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