Regia di Henry Joost, Ariel Schulman, Matt Shively vedi scheda film
Primo effettivo sequel di Paranormal Activity (il 2 era un prequel contiguo, il 3 un prequel remoto), questo capitolo 4 aggiorna al nuovo panorama mediale il rapporto che fonda la saga, ovvero quello tra la presenza del Male e l’invadenza dei dispositivi di registrazione della realtà: oltre all’immancabile videocamera, dunque webcam, pc portatili (uno per ogni membro della famiglia, uno per ogni minimo bisogno) e, coup de théâtre, i rilevatori di movimento di una XBox 360, che permettono di visualizzare i demoni in gioco. Joost & Schulman, dopo aver esordito con quel piccolo oggetto perturbante chiamato Catfish (che dibatteva intorno al termine “autenticità” al tempo di personal media e social network), si erano dedicati, con coerenza e interessanti slittamenti di senso, al capitolo 3 di questa saga capace di rappresentare ossessioni e possessioni contemporanee (dalla voracità voyeuristica alle ovvie falle nella privacy, dalle ansie di sicurezza post 11/9 all’incubo subprime della casa espropriabile). Ma repetita non iuvant. Nello sviluppo rettilineo della trama, abitato da personaggi ottusissimi, sono le omissioni a risultare interessanti: il fatto, per esempio, che l’archivio di immagini prodotte non sia oggetto di indagine cognitiva da parte dei protagonisti. E non sia nemmeno più organizzato dagli autori in un finto found footage, come a certificare alla messe di registrazioni una sublime e noncurante vita propria. Rimane ovviamente efficiente quel modo di creare paura tramite il campo totale fisso, tra Warhol, il realismo per Bazin e un’angosciosa variante di Dov’è Wally?
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