Regia di Jeong-woo Park vedi scheda film
Pare che il cinema coreano, prima d’ora, non avesse mai affrontato l’argomento. Sarà che ormai, un po’ in tutte le parti del mondo, il millenarismo astronomico e meteorologico ha soppiantato da un pezzo quello ancestrale di stampo biologico, ispirato alle piaghe in senso biblico, alle pestilenze ed alle invasioni di animali nocivi. È dunque una piacevole sorpresa scoprire come, al giorno d’oggi, sia ancora possibile, come nella fantascienza degli anni cinquanta, lasciarsi avvincere dal racconto di un’epidemia provocata da un immaginario parassita intestinale, nato da una mutazione genetica di origini inizialmente ignote. La catastrofe è sviluppata in tutti i suoi risvolti, che spaziano dal thriller al dramma, con il ritmo dell’action movie, mentre alla rappresentazione della psicosi collettiva si alterna la narrazione della tragedia del singolo, che è un misto di follia, dolore, ansia, dilemma morale e crisi dei sentimenti. Il protagonista è un giovane professore di chimica, che si è rovinato, finanziariamente, avendo investito tutti i suoi risparmi in un’operazione di borsa rivelatasi fallimentare. Sua moglie e i suoi due bambini saranno colpiti dal terribile yeongasi, il verme che cresce nelle viscere delle sue vittime, e, una volta giunto allo stadio adulto, emette una proteina in grado di condizionare il loro comportamento, inducendole a immergersi nell’acqua, con esiti sempre fatali. Nel disastro generale, che interessa centinaia di migliaia di persone, la storia particolare di quella famiglia diventa l’esempio che mette in luce la gravità e la complessità del problema, mentre l’introvabilità del rimedio farmacologico si riflette, a livello individuale, nella disperazione di non riuscire a fare nulla per salvare i propri cari. Sull’elemento horror, pur presente, prevale quindi la tensione derivante da un’avventura sul filo del rasoio, la classica mission impossibile che, per un uomo solo e privo di mezzi, si traduce in un’impresa in cui l’eroismo scaturisce dall’arte di arrangiarsi, cercando pericolose scorciatoie in mezzo ad una massa di gente ugualmente esasperata e disposta a tutto pur di sfuggire ad una fine atroce. Il contesto è estremo, caratterizzato da una corsa contro il tempo dai tratti inverosimili, da una strage che sembra inarrestabile, da una sete insaziabile che affligge i soggetti infestati, e che si manifesta in un’ossessione furiosa, interpretata con sconcertante realismo psicologico. La regia dà il meglio di sé proprio nell’inserire, sul sottilissimo confine che separa la vita dalla morte, la raffigurazione dell’agonia come un’indicibile tortura, nella quale resistere all’impulso di bagnarsi, di tuffarsi, di lasciarsi annegare comporta una sofferenza sovrumana, spesso accompagnata dalla violenza rivolta contro se stessi e contro gli altri. Quella coralità funesta, che potrebbe ricordare gli scenari de L’ultimo uomo della Terra o de Il demone sotto la pelle, questa volta è ritratta dall’altra parte della barricata, o, più precisamente, eliminando la linea di demarcazione tra i sani e i malati, perché la metamorfosi di questi ultimi non ne stravolge l’identità, non li rende né alieni, né mostri. Essi continuano a vivere in mezzo alla gente, senza essere respinti o malvisti, senza essere esclusi dalla loro comunità di appartenenza. I mariti restano accanto alle mogli, le madri accanto ai figli, e anzi, nel momento in cui, per motivi di ordine pubblico, vengono imposte misure di isolamento, scatta immediatamente la rivolta. In Deranged la minaccia, per quanto devastante, non sconnette le basi della società umana, che, anzi, si ritrova alla fine più unita che mai, in una dimensione utopica in cui anche gli interessi commerciali dei grandi imperi industriali (come quello delle case farmaceutiche) vengono messi da parte in nome della solidarietà e della salute della popolazione. Come dire: il fantastico lieto fine di una favola quanto mai attuale.
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