Regia di Tobe Hooper vedi scheda film
Tra William Friedkin di The Exorcist, qualche goliardica cazzata e caduta di tono cospicua, fra le gambe della Williams, non Esther, bensì JoBeth e la colonna sonora di John Williams, no, fra citazioni di Guerre Stellari ed E.T., Spielberg & Hooper ci regalarono un buon film sopravvalutato.
Ebbene oggi, in concomitanza con la pregiata uscita in Blu-ray 4K dell’imperdibile e intramontabile cult assoluto Poltergeist, sottotitolato per il mercato italiano con demoniache presenze, giustappunto, lo disamineremo dettagliatamente.
Opus rilevante di Tobe Hooper (Non aprite quella porta), della durata consistente di un’ora e cinquantaquattro minuti, all’epoca vietata ai minori di 14 anni, sceneggiata da Mark Victor & Michael Grais, soprattutto da Steven Spielberg, principale suo fautore e finanziatore primario.
Secondo la concisa, stavolta pertinente, sinossi estratta e trascrittavi ivi letteralmente da IMDb:
Carol Anne, la più piccola dei bambini Freeling, sembra entrare in contatto con degli esseri di un altro piano dimensionale attraverso una frequenza televisiva. Presto queste presenze inizieranno a manifestarsi in maniera più evidente, terrorizzando la famiglia.
Carol Anne è interpretata dalla giovanissima Heather O’Rourke (come sappiamo, morta nell’88) mentre il pater familias, anzi, il capo famiglia è incarnato nientepopodimeno che dal grande Craig T. Nelson (L’avvocato del diavolo). Sua moglie, Diane, è invece JoBeth Williams. Entrambi straordinari.
Secondo le testuali parole, sotto riportatevi, del valido, sebben un po’ vetusto dizionario dei film Morandini che gli assegna due stellette e mezza su cinque, riaccennandovene la trama, questo il suo giudizio che ci trova sostanzialmente concordi: In casa di una famiglia di Cueste Verde (Arizona) arrivano, passando per il televisore, spiriti aggressivi, provenienti dal cimitero demolito per costruire il quartiere. Macchina della paura con lo zampino di S. Spielberg, produttore e sceneggiatore: se E.T. era un bisbiglio, questo è un urlo. I brividi sono disposti in scala crescente, ma l’ultima fase, la più catastrofica, non è la migliore.
Poltergeist di Tobe Hooper, senz’ombra di dubbio, rivisto e quindi rivalutato oggi più oculatamente, al di là del clamore che suscitò e del suo intatto, indiscutibile fascino e del suo forte valore “seminale”, inteso ovviamente in senso cinematografico per come ingenerò innumerevoli, più o meno riusciti (non è questa la sede per parlarne in modo approfondito e specifico) epigoni e film similari dalle tematiche analoghe, è una pellicola forse troppo lunga e spesso soporifera, tranne naturalmente nei momenti di massima tensione e in quelli immediatamente antecedenti ad essi nel divampare, a carburazione lenta e ottimamente calibrata, della suspense vibrante. Un film ove l’influsso spielberghiano è onnipresente e si avverte marcatamente dal primo all’ultimo minuto, inappellabilmente. Tant’è vero che circola ancora la voce secondo la quale Spielberg avrebbe diretto molte scene al posto dello stesso Hooper, non accreditandosene come regista ma comparendo, come sopra ben dettovi, solamente annoverato come screenwriter e producer. Diceria maligna però mai veramente acclarata, perciò risibile e assai falsa.
Poltergeist s’avvale d’una straordinaria fotografia chiaroscurale e d’atmosfera, firmata da un Matthew F. Leonetti molto ispirato e funziona egregiamente in alcune circostanze e meno in altre, viaggiando cioè a fasi alterne e perdendosi in un ritmo traballante e altalenante. In alcuni frangenti, effettivamente inquieta e perturba, angoscia e lascia perfino atterriti, specialmente ipnotizza per lo strepitoso utilizzo degli effetti speciali, a volte volutamente artigianali e rozzi eppur allo stesso tempo assai efficaci, distillati con misura e congegnati con bravura, e per la superba capacità di Hooper nel saperci trasmettere ansia e palpabile terrore pur girando quasi esclusivamente in spazi prevalentemente chiusi e soffocanti, claustrofobicamente morbosi. Sovente, però, pare non saper scegliere quale strada precisa imboccare, se quella del fine thriller psicologico o quella dell’horror perfino truculento, smarrendosi fra parentesi talvolta dozzinali, sciatte e banali, poi rispiccando il volo con alcune trovate geniali e stilisticamente feroci.
Indimenticabile Beatrice Straight nei panni della dottoressa Lesh, “medium” sui generis e “psicologa” dell’occulto e dei fenomeni paranormali. Azzeccate, sebbene non eccelse, musiche di Jerry Goldsmith (Spiriti nelle tenebre).
di Stefano Falotico
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