Regia di Joshua Oppenheimer, Christine Cynn, Anonimo vedi scheda film
“ In tutta questa oscurità è come se vivessimo alla fine del mondo. Ci guardiamo intorno, c’è solo oscurità. E’ davvero terrificante ”.
Un mare nero e denso come inchiostro apre il film e riappare nel prefinale.
Parole di Anwar Congo nel prefinale:
“In tutta questa oscurità è come se vivessimo alla fine del mondo. Ci guardiamo intorno, c’è solo oscurità. E’ davvero terrificante”.
Fra i due punti una retta, lunga e sottile, il filo d’acciaio teso a “garrotare” il comunista.
S’infila nella pelle del collo e non offre alcuna presa alle mani della vittima.
Il vantaggio è di tipo igienico, si uccide in fretta, non si usano bastoni e coltelli e si evita così lo spargimento di sangue maleodorante e vischioso da pulire, dopo.
Perfezionamento in itinere dei mezzi di eliminazione di massa, l’atto di uccidere, spartiacque tra un “prima” e un “dopo”.
Oppenheimer punta il focus su quest’unico gesto, definitivo, inimmaginabile per l’orrore che scatena eppure così consueto, addirittura se ne può parlare, a volte, come di un gesto eroico.
Vita e non vita nelle mani di un carnefice. Tutto si riduce a questa modalità molto elementare di interrelazione fra esseri umani.
Fin dai tempi di Caino e Abele, citati nel film come archetipi dell’act of killing, misurarsi con il nemico è questione di mezzi e strategie, vince l’efficienza.
“Le nuove camere a gas potevano far fuori 3000 persone entro due ore”, raccontava Franz Suchomel, Unterscharführer SS di Treblinka a Lanzmann.
C’è ancora chi nega siano esistite cose del genere. Bene, qui abbiamo un esempio convincente del contrario.
Oppenheimer (Josh per i suoi attori, li sentiamo spesso interagire così con lui), fa un’operazione di straordinaria abilità rappresentativa (con lui, a produrre il film, Werner Herzog ed Errol Morris non sono certo un caso).
Mette in scena i protagonisti veri del massacro avvenuto nel 1965 in Indonesia quando, col sostegno degli Stati Uniti, salì al potere il generale Suharto e più di un milione di persone, per la maggioranza miserabili contadini, furono eliminate con l’accusa di comunismo.
Questi attori improvvisati sono gangster, parlano di sé con orgoglio, ripetono spesso che gangster significa “uomo libero”, e la nazione ha bisogno di uomini liberi.
Anwar Congo é indiscusso protagonista, poi c’é Herman Koto, il ciccione sadico che gli fa da spalla, e i capi degli squadroni della morte, leaders dei corpi paramilitari che sfilano tra folle inneggianti e pagate per essere lì, come avviene nei migliori programmi televisivi, né più né meno.
Perché in questo mondo, che diremmo surreale se non fosse così assurdamente reale, i confini tra vita e cinema, vita e televisione sono stati totalmente azzerati.
Congo e gli altri avevano una fiorente attività di bagarinaggio davanti ai cinema della città, prima del colpo di stato. Adoravano i film americani, western, musical, Elvis era il loro idolo, uscivano dal cinema cantando e ballando!
Al momento opportuno si sono messi a copiare le imprese e le tattiche dei gangsters movies: uccisioni in auto, in campo aperto, fra quattro mura, tutto come in un film.
E pensare che i comunisti volevano che non si proiettassero più film di Hollywood!
Ammazzare diventò l’attività più proficua e poiché tutto ha un prezzo, per non essere ammazzato bisognava pagare, e continuare anche dopo a farlo, l’internazionale mafiosa ha regole comuni.
In quelle campagne abbrutite da miseria endemica, in giro per baraccopoli riprese da carrellate con steady cam semi impazzita o camera fissa inchiodata a terra in una fissità incredula, Oppenheimer riprende, senza commenti, un mondo incanaglito che parla di sé con la sincerità repellente di chi non riesce a rappresentarsi secondo i canoni di un normale contratto sociale.
Questi uomini (e donne, poche, sullo sfondo, ma ci sono anche loro) sono non al di là ma al di qua di ogni morale, esseri allo stato brado, di ottusità e ignoranza oscene nella totale incapacità di distinguere male e bene.
E Congo in fondo lo sa, e dice una grande verità:
“Ignoranti, senza istruzione, c’è gente come noi in ogni parte del mondo”.
Oggi ben inseriti nei gangli dello Stato, eleganti e ricchi, ripresi con l’apparato kitsch del loro benessere, ricreano, su set allestiti in luoghi che furono autentico teatro di stragi, scene di vita vissuta, si divertono, sentono finalmente di realizzare il loro sogno, essere attori come in quei film che amavano tanto.
Perfino i due nipotini di nonno Congo sono chiamati (poveri tesori che dormivano nelle loro camerette) a guardare un’anteprima del film appena girato!
Inizia così il percorso di formazione delle nuove generazioni.
Ma Congo alla fine cede, a tutto c’è un limite e vedersi al cinema non è operazione indolore.
Il cinema è finalmente il suo specchio, il doppio che non perdona, lo svelamento senza ritorno e senza redenzione.
La percezione di sé ora si fa largo nella coscienza e il vecchio ha conati di vomito a ripetizione.
Impossibile accettarsi, ma ormai davanti a lui c’è solo il mare, nero come inchiostro:
“In tutta questa oscurità è come se vivessimo alla fine del mondo. Ci guardiamo intorno, c’è solo oscurità. E’ davvero terrificante”.
The Act of Killing, premio come miglior documentario all'European Film Award 2013, premio della giuria ecumenica al Festival di Berlino 2013, nella sezione Panorama Dokumente, e quello per la miglior produzione internazionale al Biografilm Festival dello stesso anno.
In corsa per l’Oscar 2014.
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