Regia di Joshua Oppenheimer, Christine Cynn, Anonimo vedi scheda film
Nel 1965 l’Indonesia passa sotto il controllo dell’esercito e di un gruppo paramilitare formato da gangster. Nel volgere di pochi mesi si scatena una feroce caccia all’uomo che mira ad eliminare fisicamente gli oppositori al nuovo governo e in particolar modo i comunisti. Ad essi vengono equiparati i nativi cinesi, gli intellettuali , gli artisti, i letterati e chiunque con il proprio pensiero si opponga o critichi il nuovo corso.
Con l’aiuto del governo più di un milione di persone vengono torturate e uccise, indefinibile il numero delle vittime se si contano le persone scomparse. Quello che sembra essere un “normale” reportage su uno dei tanti massacri ideologici che l’essere umano ha perpetrato nella sua storia, nelle mani dei registi Joshua Oppenheimer e Christine Cynn, diventa qualcosa di più.
I simpatici signori di mezza età che vengono seguiti e ripresi, così buffi, con i sorrisi sghembi su facce butterate da film – appunto – asiatico, sono i componenti di uno dei tanti squadroni della morte che cacciava i comunisti nelle città per poi, dopo un paio di domande durante un interrogatorio farsa, sostenuto in pieno accordo con il governo, ucciderli nel modo più crudele, selvaggio e creativo. Creativo.
I gangster – così amano chiamarsi – mostrano quindi i luoghi e le modalità con le quali trucidavano i prigionieri con leggerezza e candore, uomini anziani che ricordano un gioco buffo fatto in giovinezza e lo replicano in favore delle telecamere con gioiosa spensieratezza. Sotto inchiesta dalla comunità internazionale per crimini contro l’umanità essi si definiscono – e vengono considerati – eroi della patria. L’assoluta mancanza di rimorso nel ricordare il genocidio è dovuta ad una consapevolezza distorta dell’aver adempiuto con risolutezza, una missione che ha consentito ai all’Indonesia di diventare un paese libero. Le ricostruzioni sono di stampo cinematografico, con tanto di scenografie, trucchi costumi, dove essi, imitando il modello americano dei film di gangster o western, metto in scena con ingenuo entusiasmo l’oscena operetta di morte dei loro trascorsi. Quello che ne viene fuori è un corto circuito accecante nel quale la finzione si mischia ad una realtà agghiacciante. L’essersi ispirati da giovani a l’estetica della violenza del cinema americano ha evidentemente messo frutti visto che ora – come loro stessi dichiarano – sono diventati star grazie proprio al cinema che ammiravano da giovani.
E’ a suo modo buffo e atroce il mondo ripreso da Oppenheimer, colorato come una commedia nella quale gli interpreti rifanno se stessi in pose da cinema di serie B. Un cinema che si fonde a questo pezzo di storia come motore della meccanica delle azioni, ma anche portatore di un’ideologia che dalla caccia alle streghe di natura americana è riverberata in questa nazione trasformandosi in martirio.
La struttura del documentario è quindi un riuscitissimo ibrido di fiction e realtà, un modello herzoghiano che sfrutta proprio l’immaginario cinematografico e la sua visibilità per fare leva sulla vanità e il prestigio dei personaggi che si alternano sullo schermo.
La lingua originale è necessaria per acuire ancora di più il senso di disagio e disgusto per le azioni di questi signori della morte. Sempre sorridenti, eleganti di un’eleganza vanitosa, variopinta e surreale, i loro racconti sono scanditi dalla loro lingua altrettanto musicale, ritmata e un po’ stridula. E’ come un suono di uno strumento sconosciuto sempre uguale, una tarantella ritmata su tamburelli di latta. Nell’immaginarli nell’atto di uccidere, quel suono diventa lo sberleffo finale di un’anima che ha pieno disprezzo per la vita umana.
Il film funziona proprio per questo. Senza mostrare nulla , evoca immagini di morte che l’esperienza, anche quella dello spettatore, veicola proprio dalla cultura della violenza istruita dal cinema o dai filmati- verità delle guerre riprese in diretta, delle torture in video presenti sui portali di condivisione che scontornati da un qualsiasi contesto vengono percepiti come fiction.
Realtà e fantasia si fondono, nella contemporaneità dominata dall’immagine. Oppenheimer lavora su questo, ribaltandone il senso. Le persone responsabili dei massacri diventano attori di loro stessi, si rappresentano come si immaginavano se si fossero visti dall’esterno o se qualcuno li avesse filmati durante le loro imprese.
Poveri di qualsiasi empatia umana, raccontano le più grevi atrocità con la convinzione di attori mediocri su un set di un film di quart’ordine. Ma quello che la camera registra è solo un abisso di ignoranza, rozzezza e crudeltà su cui si è fondata – massacrandola - una nazione.
Fortissimo il richiamo alla politica USA , ai diktat veicolati dai mezzi di informazione, alla propaganda istruita ai bambini con – ancora una volta – un cinema (rozzo, maldestro e amorale) che mostrava i comunisti odiosi e spietati compiere nella finzione quelle atrocità che poi quei bambini – liberi da qualsiasi rimorso –avrebbero rovesciato sulla parte avversa nel – loro - futuro più prossimo.
Solo alla fine, quando i protagonisti vengono messi nei panni delle loro vittime, non più giocando al piccolo teatro degli orrori, magari improvvisando per strada, ma sfruttando proprio tutta la potenza emotiva che il cinema – quello che loro idolatrano - riesce a evocare, si vede una crepa nella sicumera, la catarsi farsi avanti sulle facce dei boia, l’orrore esondare nello sguardo verso l’abisso. La consapevolezza allora fora l’odio, forse germoglia. Forse, qualcuno di quei boia, quella notte avrà dormito male.
The act of killing è un capolavoro.
Candidato agli Oscar nella categoria dei documentari, credo che non avrà rivali. Spero,
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