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The Act of Killing - L'atto di uccidere

Regia di Joshua Oppenheimer, Christine Cynn, Anonimo vedi scheda film

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La recensione su The Act of Killing - L'atto di uccidere

di lamettrie
7 stelle

Un film dallo splendido messaggio, anche se penalizzato da tante scelte del regista: eppure resta un bel film antifascista, in cui la critica arriva dall’interno del fascismo, dalle confessioni della bestialità dei suoi stessi esponenti di rilievo.

Le pecche ci sono: il grottesco è eccessivo, così come la durata (ho visto la versione originale, di 2h39). Non si capisce il perché di troppa teatralità, così gratuita, come anche del protagonista grasso così spesso e inverosimilmente vestito da donna.

Ma i pregi sono comunque tanti. Innanzitutto la trattazione di uno dei più grandi crimini del ‘900: lo sterminio di milioni di comunisti in Indonesia, dal ’65, sotto la terribile dittatura parafascista di Suharto, resa possibile solo dal grande appoggio criminale statunitense. Sotto questo profilo non manca nulla.

Interessante la lettura storica, e corretta: come in tutto il mondo, nei paesi dove nel dopoguerra il fascismo ha prosperato grazie agli Usa, il suo obiettivo è la lotta al comunismo da parte dei grandi imprenditori. Intesa come lotta all’uguaglianza, alla giustizia sociale, ai pari diritti di tutti. Gli squadristi assassini uccidevano, con l’indifferenza mostrata, perché solo così delle nullità come loro avrebbero potuto avere soldi, potere e rispetto: che hanno puntualmente avuto, e in sovrabbondanza. Ma uccidevano vagoni di uomini alla volta perché erano ben pagati da un’élite ricca.

A far prosperare l’Indonesia (allora, durante la dittatura di Suharto, tra il 67 e il 98, già ben oltre i 200 milioni di abitanti, quarto paese più popoloso al mondo), erano anche i gangster, traduzione del corrispettivo indonesiano. “Gente libera, che fa quel che vuole” viene descritta: dei fascisti appunto, che disprezzano i giusti bisogni altrui.

Notevoli tanti altri aspetti di questo documentario: l’indottrinamento anticomunista imposto sin da bambini; la violenza e la volgarità dei vertici del partito paramilitare, dove l’invocazione a Dio è la parodia di una seria fede, che lì viene esibita in quel paese islamico; l’orgoglio, condiviso tra i militi, dello stupro sulle comuniste, in particolare “sulle 14enni, ma solo se carine”; il fanatismo nell’uccidere, in nome esclusivamente del diritto del più forte.

Notevole è anche lo scavo psicologico dentro gli assassini. Novelli Eichmann, questi ripercorrono con rincrescimento, e malcelata angoscia, la storia dei loro migliaia di omicidi. Ciò convive con il loro atteggiamento iniziale: pare che ricordino i vecchi tempi come degli anziani che rimpiangono il tempo in cui seducevano le giovani, o come delle vecchie glorie del palcoscenico depressi per i tempi che furono e che non torneranno più. Questi due aspetti – la resipiscenza e l’indifferenza - convivono appunto nella narrazione, conferendole robustezza e credibilità umana, per quanto l’orrore la faccia da padrone, con la sua semplice quotidianità storica.

Loro stessi hanno da criticare, perfino: la polizia, che non potrebbe dare quella sicurezza che solo i criminali sanno dare alla gente comune; i politici “ladri in cravatta”; gli elettori, abituati a svendere il proprio voto per il regalino meno squallido tra tutti.

Un documentario vero, di una parte del mondo immortalata nei suoi agghiaccianti limiti etico – politici. Che non sono certo solo loro. Meno di cento anni fa, il fascismo l’avevamo anche noi, che l‘abbiamo peraltro inventato, e quindi esportato in tante decine di stati. Uno dei tanti tristi primati tricolori (oltre alla controriforma, alle mafie, al berlusconismo…)      

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