Regia di Sophie Huber vedi scheda film
Harry Dean è come una canzone di The Band: ha qualcosa di epico, ha l'America portata addosso, quella profonda, quella solitaria, potrebbe tranquillamente essere un soldato confederato della guerra civile così come un junkie sul confine messicano, sicuramente è un outsider, un fuorilegge, a suo modo. O come Travis, il suo unico personaggio da protagonista al cinema, ("Paris, Texas"), uno che sbuca dal deserto, silenzioso, e che nel deserto, in silenzio, tornerà. Questo documentario è una meraviglia. La Huber gira attorno al volto incredibile di Stanton, lo illumina di un bianco e nero straordinario, lo segue nelle interpretazioni strazianti e bellissime di vecchie canzoni folk, da cui la necessaria colonna sonora, lo pedina nel suo bar preferito, sulla Hollywood Boulevard, e ascolta i suoi silenzi. Uomo di poche parole, Harry Dean, ma che riesce comunque a conquistare la scena. Carisma puro. Un uomo stanco ma lucido, la malinconia dei ricordi, le donne, tantissime, le vecchie fotografie alle pareti, gli incontri, molto informali, con David Lynch o con Kristofferson, uno dei momenti più belli del film. E aneddoti, il jogging con Dylan sul set di "Pat Garrett", l'amicizia con Brando, gli anni folli passati a casa di Jack Nicholson, a Laurel Canyon. E l'universo, l'unica cosa in cui crede, in quel maledetto Sole attorno a cui la Terra gira alla velocità di 30km al secondo e che lo atterrisce, dal niente da cui si proviene al nulla a cui si tornerà. Uno splendido ritratto di un attore che è già oltre al culto e alla leggenda.
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