Regia di Jazmín López vedi scheda film
Braccati. Smarriti. Alla ricerca di un luogo che non si sa dove sia, la cui traccia è contenuta in una voce proveniente dal passato. Basta questo remoto senso di disperazione a fare di una semplice vicenda di ragazzi in gita un etereo scorcio di poesia. Zaino in spalla, Isa, Sofi, Arturo, Felix e Niki attraversano il bosco, in un assolato giorno d’estate, da qualche parte, in Argentina. Il mare non è lontano, eppure non si vede. Tutto intorno il mondo sembra racchiuso in uno spicchio di verde, così piccolo che, camminando, si finisce sempre per andare in tondo, per ritrovarsi al punto di partenza. Quel microcosmo, tanto minuscolo, si afferra con uno sguardo, lo si gira con un unico, lungo piano sequenza, almeno fino al momento in cui il sogno si interrompe, per voltare pagina, per afferrare un altro lembo della memoria. Cinque adolescenti hanno una meta apparentemente sconosciuta, ma in cui sono già stati. Si tratta solo di sforzarsi di ricordare bene quello che è successo allora. Tuttavia, non sembra che quell’evento sia al centro dei loro pensieri. Tra di loro parlano soprattutto di amore. E intanto giocano con le parole, ad inventare frasi aventi una lunghezza precisa. La fantasia colorisce il nonsenso. La gioventù, con la sua leggerezza, riesce a farsi racconto, anche quando il significato manca. Il suo affacciarsi sul futuro la rende costantemente protesa verso un dopo che, comunque, prolunga il presente con la continuità di una narrazione. Il film di Jazmin López è un’ode a questa naturale fluidità del discorso, che riesce soavemente a fare a meno della logica, sfidando le spezzettature indotte dall’errore, dall’esitazione, dall’avventatezza. La storia vola, al di sopra degli scogli delle incongruenze, attraverso la nebbia dell’ambiguità. Parte in quarta, senza riserve, come uno sparo che buca una nuvola. La sua incontaminata spavalderia le consente di guardare oltre il cielo, di superare le barriere dell’invisibilità. Così ogni spettro, ogni alone dell’immaginazione, diventa parte tangibile della realtà. Giunge, se occorre, perfino a farsi carne, che ha fame di cibo e di sesso, un corpo pesante che cade nell’acqua facendo rumore, creando le onde, spargendo la schiuma. L’età dell’innocenza non si lascia vincere senza combattere, senza brandire l’arma della gioia incondizionata di vivere, anche quando la ragione rema contro, e le domande rimangono in attesa di una risposta. È grande la parte dell’anima che gode senza capire. È vasta come l’oceano, o come l’universo dopo la fine del mondo, quando tutto sarà scomparso. Le mille ipotesi di un altrove che travalichi il tempo si accavallano, in quel vagabondare incosciente, come scintille tratte da una favola bellissima per i bambini, ma terribile per gli adulti. È in nello stretto, travagliato passaggio dall’infanzia alla maturità che la caccia al tesoro smette di essere un divertimento col premio assicurato, per tingersi del torbido fascino dell’avventura dall’esito incerto. Arrivare in fondo potrebbe anche essere un male. Quel che conta è, come al solito, il viaggio in sé e per sé. Quel coraggio di proseguire il percorso di scoperta, anche a casaccio, senza paura di ciò che si potrà trovare. Senza fermarsi a temere il peggio. Continuando a correre, non importa come, non importa perché.
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