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Leones

Regia di Jazmín López vedi scheda film

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La recensione su Leones

di scapigliato
6 stelle

La macchina da presa segue di spalle una ragazza che cammina nel bosco, poi la perde e perde anche il suo sguardo tra gli alberi, poi la ritrova addormentata e riprende a seguirla, lei e altri suoi amici, ragazzi giovani sbucati fiabescamente dal bosco. E continua così, lo sguardo misterioso, a pedinare i ragazzi: ogni tanto gli sta addosso, ogni tanto rallenta, se ne allontana, li perde di nuovo, vaga nuovamente tra gli alberi della foresta e poi li ritrova; c’è chi resta indietro, chi si apparta, chi apre la pista e segue un sentiero inesistente. E la macchina da presa è lì, a pedinarli senza fretta e con costanza.

Leones di Jazmín López si compone di diciannove piani sequenza che sembrano realizzare la base teorica del neorealismo italiano, la zavattiniana teoria del pedinamento, portandola fuori contesto, ovvero nella natura selvaggia invece che tra le strade dell’Italia del dopoguerra. Un uso costante della steadycam, un taglio quasi da cinema verità a metà tra documentario, point of view e videoarte. La critica colta vi ha riconosciuto palesi omaggi a Tarkovski (Zerkalo, 1975; Stalker, 1979), Antonioni (Blow-Up, 1966) e un omaggio evidente alle tecniche antinarrative di Godard e la Nouvelle Vague.

Tra una citazione e l’altra, l’artista visuale argentina racconta di cinque ventenni che vagano misteriosamente in un bosco, senza una meta precisa, con indolenza e indifferenza, seguendo di tanto in tanto una mappa che non li porta da nessuna parte. A poco a poco scoprono dettagli di cui non erano a conoscenza, come la pistola tenuta segreta da uno di loro o la ferita sanguinante di una ragazza che non ricorda come se l’è procurata; con l’aggiunta di una serie di azioni dal taglio onirico come la partita a pallavolo senza palla – come quella a tennis senza pallina di Antonioni – il bagno nel fiume, l’impeto sessuale castrato e ovviamente il continuo e immotivato errare per il bosco che ci riporta alla mente le tante narrazioni di giovani poeti fuggiaschi in natura, come nel Boccaccio, o come preferisce ricordare l’autrice, nelle narrazioni “naturiste” di Borges e Cortázar.

Sempre restando a Borges, la regista parla dell’idea di salvajismo, da noi traducibile come selvatichismo o randagismo più che con la prima traduzione letterale di ferocia e barbarie. La López cita lo scrittore argentino proprio come precursore dell’idea che gli animali sono immortali perché non sono coscienti e fa suo questo concetto affascinante abbinando adolescenza, immortalità, incoscienza e animalità per dare vita, vita impalpabile, a quel momento cognitivo della realizzazione dell’incontro con la morte e con l’età adulta. Un momento esistenziale che si fa evenemenziale quando il corpo adolescente, pronto, preparato, maturo, sviluppato e ricettivo fatica ancora a incontrare una coscienzalizzazione di sé e del proprio corpo come un elemento armonico del mondo e della società, con un suo inizio, una sua progressiva corruzione e una sua fine biologica. Da qui, l’impeto immortale della gioventù e la sua non coscienzalizzazione del sé. Ma in Leones, di tutto questo non c’è traccia riconoscibile e tangibile.

Purtroppo la resa finale resta un gioco intellettuale e cerebrale fatto di citazioni e omaggi ad un cinema alto e sofisticato che vuole declinarsi al fantasy adolescenziale perdendo però l’occasione di tradurre in immagini e in narrazione la tanto menzionata idea di salvajismo borgesiano: non un solo riferimento al mondo animale, nessun segno fisico della morte, nessuna riflessione sul corpo e la carne – il bagno al fiume lo fanno tutti vestiti. Resta comunque affascinante la lunga marcia in tempo reale, filmata in piano sequenza per quasi dieci minuti, di una delle ragazze protagoniste che attraversa il suggestivo e vasto dunar che dall’entroterra la porta verso il mare e quindi verso la tanto ricercata sparizione nel dissolvimento totale tra le acque dell’oceano.

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