Regia di Yesim Ustaoglu vedi scheda film
Questa “via di mezzo” (Araf - Somewhere in Between) di Yesim Ustaoglu (Orizzonti Venezia 69) non convince, si avverte un calcolo stilistico troppo scoperto, un’elaborazione formale che non approda a leggerezza e necessario distacco dell’autore dall’oggetto della propria arte, aleggia un sospetto di raffinatezza estetizzante dove una cifra di stampo neorealista avrebbe richiesto altro.
Ne consegue una sensazione di pienezza eccessiva lì dove, al contrario, avrebbe giovato lavorare sullo svuotamento e sulla sottrazione.
L’impressione globale, alla fine della visione, è di un’opera ricca di potenzialità tradite dalle sue stesse intenzioni.
L’attenzione al tema della discriminazione sulla donna, alla disfatta di entrambe le parti nel conflitto sessuale, lo sconfinamento sul gap tra modernizzazione e tradizione e sul conflitto generazionale conseguente, e infine lo scivolamento sul terreno del “futuro negato”, con un matrimonio celebrato dentro un carcere (la madre di tutti gli ossimori) decretano il tracollo dello spettatore dopo più di due ore di visione.
Visione che comprende anche un aborto spontaneo in diretta, con abbondanza di versamento sanguigno e feto che la protagonista si affretta a pulire, ovviamente dopo l’autotaglio del cordone ombelicale, con ciò dimostrando notevoli doti di controllo fisico e psichico.
Da rilevare che, incredibilmente, la madre non si fa problemi nel constatare la lunga assenza della figlia, portata in ospedale e chiusasi in bagno in preda a forti dolori addominali. E’ fuori e aspetta.
Ciò detto, e dopo aver descritto la pecca maggiore del film, va anche sottolineata, perchè è giusto, una messa in scena molto diligente, ma è appunto l’estrema diligenza il suo limite, sembra studiata a tavolino per esigere empatia. Che non scatta, e ci si chiede perchè, trattandosi di una regista che ha dato buone prove di sè in almeno due occasioni precedenti (Il vaso di Pandora 1999 e Viaggio verso il sole 2008).
Sarà l’insistenza nelle riprese dal vero, esterni su cui si proietta una geometria delle passioni inversamente proporzionale, con colate di metallo fuso quando invece il gelo si è steso sull’anima, autostrade spazzate da folate di neve mentre ribolle il fuoco del desiderio, sfondi marini grigio piombo per un incontro che dovrebbe essere rosa, i due finalmente si guardano negli occhi! Non parlano, no, un’unica battuta in tutto il film la dirà lei: “Portami via con te”, ma naturalmente lui non lo farà.
Forse è questa insistita didascalia dei sentimenti a creare fastidio, questo dare dissonanze a precisi stati d’animo con l’aria di sottolinearlo per farti aderire immediatamente al suo universo emozionale, certo si oscilla tra attesa e delusione per quello che il film promette e che poi non mantiene.
La storia di Zehra e Olgun è un topos conclamato, un’antica favola che si rinnova di stagione in stagione, adottando look diversi e identica amarezza.
Lavoro umile in fast food da male ai piedi la sera, sogni davanti alla TV (ogni paese ha i suoi grandi fratelli e mariedefilippi in corso), dura realtà che si affaccia sotto mentite spoglie (la solita strega di Biancaneve).
E, in effetti, Zehra sembra un po’ Biancaneve, tanto è bella, innocente e sprovveduta.
Invece del principe, però, arriva l’Orco, un camionista bello e impossibile, con gli occhi neri e il suo sapor mediorientale, che la corteggia “avvolgendola di sguardi” , le fa intorno una danza erotica che il povero Olgun, collega da disco music e cavallo basso dei pantaloni innamorato di lei, se la sogna, e l’equazione stavolta è fatta, ci scappa il pupo.
Il resto è storia nota, neanche uno spoiler la renderebbe più nota.
Restiamo dunque in attesa di un futuro possibile, in passato Ustaoglu ha dimostrato grinta, stile, urgenza di dire cose e di saperlo fare.
Dovrebbe tornare a farlo, dimenticando di strizzare l’occhio alle platee internazionali.
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