Regia di Frédéric Fonteyne vedi scheda film
Il tango è libertà. È l’amore che si prepara, quando un uomo è solo e la sua donna è lontana. È l’amore che si sperimenta, tra due sconosciuti che iniziano a toccarsi. È un linguaggio universale, che disciplina il corpo mentre lo rapisce dentro un’ignota dimensione di sensualità. Dopo un giro di quella danza, è possibile che tutti, per quanto diversi e distanti, si scoprano inaspettatamente concordi, complici nella realizzazione dello stesso sogno proibito. Succede a J.C., guardia carceraria, alla sua compagna di scuola di ballo, e ai due uomini di quest’ultima, entrambi detenuti. Intorno a loro, la girandola degli eventi, delle rivalità e delle connivenze, imita gli arabeschi dei passi che si intrecciano, disegnando circoli e spirali, avanzando e indietreggiando, come in una convulsa schermaglia sentimentale, pulsante di intermittente passione. Il film di Frédéric Fonteyne, per quanto non perfettamente sintonizzato sull’auspicato registro artistico, trasmette con efficacia l’idea di un affascinante turbamento collettivo che annulla le differenze e fa compiere follie. Basta un ritmo trascinante ad ispirare propositi trasgressivi, perché la musica che si traduce in palpito vitale, basta ad annullare la ragione e a far dimenticare il senso delle regole. Imparare il tango significa rieducare l’anima ad una promiscuità che è la base carnale dell’apertura verso il prossimo, della solidarietà umana, dell’assenza di pregiudizi. Questa metafora dello spirito rivoluzionario è una scintilla melodica che parte in sordina nel mondo della gente comune, per poi arrivare, di straforo, tra le mura di un carcere, e divampare in un incendio di festoso desiderio. A mitigare la fiamma interviene soltanto il doveroso tributo al realismo sommesso del cinema d’oltralpe, che non può ignorare la tristezza di vivere, nemmeno nei momenti in cui tutti i personaggi vorrebbero, in cuor loro, cacciarla dalla mente. Non è dunque lecito aspettarsi esplosioni coreografiche da musical hollywoodiano, che trasformino l’illusione in fantasmagoria. Eppure l’entusiasmo per la meravigliosa novità non si manifesta con minore potenza, sostituendo, al furioso dinamismo dell’allegria, il movimento spezzato e trattenuto della rabbia repressa. In quel contesto di passato oscuro e futuro incerto, la vita non può essere abbracciata senza pensare un po’ alla morte, ossia al sinistro spettro del delitto che si è commesso contro altri, alla funesta immagine evocata dalla condizione dei reclusi, al macabro progetto di vendetta o di autodistruzione che, ad un certo punto, sembra offrire l’unica possibile via d’uscita. L’intensità di Tango libre è una pulsione che rimane a lungo soffocata e incompiuta, e che sarebbe bene si mantenesse tale fino all’ultimo, come la traccia di una sofferenza eternamente prigioniera, soggetta a singoli sussulti di speranza. Invece l’epilogo si abbandona un po’ troppo ciecamente alla gioia della rivelazione, che, nella realtà, non è mai così gagliardamente priva di ombre.
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