Regia di Peter Brosens, Jessica Woodworth vedi scheda film
D’un tratto, in un villaggio nelle Ardenne, la natura respinge ciò che la comunità le chiede, ciò che regola l’esistere degli uomini. Biologicamente e culturalmente: non si lascia ingravidare dai riti pagani, non accoglie i semi, non restituisce i frutti della terra. Ed è così che l’uomo affamato, nell’eterno, sterile inverno di questo Belgio fuori dal tempo, perde vigore, rallenta l’uso del linguaggio, guarda regredire violentemente la dimensione sociale. La comunità, priva della propria identità dettata dalla natura, è costretta a rifondarsi, cercando un nemico comune: lo straniero, colui che, citando Rousseau e Nietzsche, preferisce i paradossi ai pregiudizi. E rispetta l’avversione della terra, l’ostico stato delle cose. Brosens e Woodworth chiudono, nella propria terra natia, la trilogia sul rapporto tra uomo e natura cominciata con i bellissimi Khadak (girato in Mongolia) e poi Altiplano (in Perù). E con questo film di catastrofismo pagano propongono un B movie di ricerca, tra l’alto e il basso, un racconto folclorico che monda l’arte elitaria, tra l’apertura del cinema contemplativo e il geometrico formalismo del tableau vivant. Una forma obliqua che non s’accontenta ed è sempre in movimento: spinge quadri di Bruegel verso le morti di De Bruyckere, il medioevo di Bergman verso il cinema fantaetnografico di Ben Rivers, le suggestioni di Tarkovskij verso l’horror americano settantesco. E conferma l’ossessione del cinema contemporaneo per la creazione di nuovi, altri o antichi, mondi e per il loro fallimento, causa apocalisse.
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