Regia di Kathryn Bigelow vedi scheda film
Ancestrale tra uomo e la natura, in una fusione di forza panteistica che dura l’attimo dell’azione stessa. Se nel film di Milius la filosofia Zen era implicita e incistata nella storia dei tre surfer, in “Point Break” è esplicitata nella figura di Bodhi (diminutivo di Bodhisattva). Del resto, se Bodhi è pienamente consapevole della sua dimensione al di fuori della società capitalista e industriale, diventa il maestro che porta al “risveglio” l’allievo Utah attraverso la pratica dell’azione. Utah è all’inizio il rappresentante di quella generazione aggressiva e yuppie che è pronta a tutto per la propria affermazione personale, ma l’incontro con Bodhi provoca una trasformazione ineluttabile e fa uscire il suo lato “naturalistico” che lo porta all’abbandono definitivo del suo stato precedente. In questo senso, fin dall’incipit la regista americana connota i due personaggi all’interno di un elemento in cui agiscono: in un montaggio parallelo, mentre Utah supera una prova di scontro a fuoco teorica con delle figure cartonate all’accademia del Bureau, Bodhi è mostrato mentre cavalca le onde dell’oceano. L’acqua diventa l’elemento primevo di (ri)nascita, quella della pioggia che colpisce Utah e quella marina in cui si immerge Bodhi. L’incipit si collega idealmente con il finale, dove su una spiaggia australiana, nella tempesta decennale che provoca le grandi onde, Utah raggiunge Bodhi dopo averlo inseguito in tutte le spiagge del pianeta. Sotto una pioggia scrosciante entrambi dicono addio alla vita precedente: Bodhi cavalcando per l’ultima volta la “grande onda” unendosi per l’eternità con il proprio stato di natura; Utah gettando nell’acqua il distintivo che lo legava ancora a quella società che ormai ha abbandonato. L’acqua è il simbolo di creazione e distruzione, di trasformazione di uno stato metafisico all’altro, che unisce i due protagonisti in un destino scritto fin dalle prime inquadrature, giunti al termine di un viaggio percorso durante l’azione filmica. Insieme agli attori sequenze complesse di inseguimento che fanno il paio con quelle effettuate da Friedkin in “Vivere e morire a Los Angeles” con cui “Point Break” ha alcuni punti in comune e che testimoniano la completa padronanza della macchina-cinema della Bigelow. Il cinema di Kathryn Bigelow oltre a superare i limiti fisici – lontano da quello digitale in cui l’immagine e la vista sono predominanti – fonde e trascende il genere. Così dopo le sperimentazioni di “The Loveless” sceglie di immergersi nei generi e trasformarli. “Il buio si avvicina” oltre a essere un horror classico è un western post-moderno; “Blue Steel” oltre a essere un poliziesco classico è un dramma psicologico; “Strange Days” è un film di fantascienza e un dramma politico e così via per tutte le pellicole della regista americana. In particolare, “Point Break” è un thriller, un action movie, un beach movie, un coming of age, in cui i codici dei differenti generi sono fusi e incastrati uno con l’altro senza soluzione di continuità, come un montaggio dell’azione-forma che scivola fluida intorno ai corpi attoriali e al corpo filmico.
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