Regia di Baltasar Kormákur vedi scheda film
Nessuno ancora sa come Gulli abbia fatto. La sua sopravvivenza è un miracolo, che la scienza ha potuto spiegare solo in parte. Resistere per ore nel mare ghiacciato è impossibile, a meno di possedere, sotto la pelle, uno strato di grasso perfettamente isolante, come quello delle foche. Ma forse un pescatore nato in una piccola isola del nord dell’Atlantico può avere questa particolarità, che lo distingue dalle persone del continente. L’equipaggio del Breki era composto da sei marinai, ma solo uno è riuscito a salvarsi, dopo che una rete, rimasta impigliata sul fondo, ha provocato il rovesciamento dell’imbarcazione. Gulli, diversamente dai suoi compagni, non è morto assiderato, non è annegato, ed ha invece raggiunto a nuoto la riva. L’ultima opera di Baltasar Kormakur ci propone una vicenda realmente accaduta nel febbraio del 1984, in un ambiente islandese sonnolento e fuori dal tempo, simile a quello dell’Europa di venti anni prima. Le menti degli abitanti delle Westman Islands sono ancora rivolte al passato, a quella eruzione vulcanica che, nel gennaio del 1973, aveva costretto la popolazione della città di Heyman a fuggire, per non fare più ritorno, oppure per ritrovare, al rientro, il proprio mondo coperto da metri di polvere nera. Gulli ripensa a quel dramma, che ha profondamente segnato la sua infanzia, mentre è da solo, alla deriva, travolto dalle onde ed immerso nel buio della notte artica. Il film della sua vita gli scorre davanti agli occhi, e intanto prega Dio; a tratti, invece, si rivolge ai gabbiani di passaggio, invocando la loro misericordia. Questa storia colpisce per la sua cruda semplicità, così conforme alla grigia durezza degli inverni nordici. È il racconto di un eroismo spietatamente solitario, ermeticamente sigillato nel proprio mistero, come è giusto che sia, in un contesto in cui i rapporti umani appaiono congelati in una riservatezza imposta dalla rigidità del clima. Le emozioni si accendono e si spengono con le fiammate d’ebbrezza provocate dall’alcol, o secondo le immagini che, tempo permettendo, si riescono, a sprazzi, a ricevere sul televisore. La vita è una questione gelosamente chiusa in un’intimità che solo la necessità di uscire per lavorare o respirare aria fresca riesce, sia pur stentatamente, a scalfire. Questo film si muove con lentezza e circospezione all’interno di quell’atmosfera compressa che trasforma le case, i locali pubblici, le cabine di una nave in tanti piccoli asfissianti rifugi. L’effetto di questa condizione è stranamente simile a quello del suo contrario, ossia della rarefazione che, nella stessa misura, induce a risparmiare le energie, e soffoca i suoni in un silenzio ovattato. Il pericolo è che allora anche la voce della interiorità venga messa a tacere; se non interviene, in suo soccorso, una vigorosa spinta di realismo psicologico, l’espressività rischia infatti di ridursi ad un sussurro acerbo ed imperfetto. Come nei tratti stilizzati di un disegno infantile, l’essenzialità risulta qui piuttosto incerta ed approssimativa, forse eccessivamente aderente ad un culto della semplicità che deborda in un’innaturale venerazione del lato ingenuo delle cose. The Deep racconta la sua verità con passione, e ci mette il dovuto entusiasmo, eppure sembra lasciarsi frenare dal timore di concedersi troppo all’asciuttezza della cronaca, infrangendo l’alone da fiaba. Quel che sarebbe potuto diventare un interessante documentario si ferma dunque allo stadio di un’avventura passabile: discretamente avvincente e moderatamente curiosa, però, nel complesso, scarsamente suggestiva.
Questo film ha rappresentato l’Islanda agli Academy Awards 2013. Pur non entrando nella rosa dei cinque finalisti, ha fatto parte della shortlist di nove titoli selezionata nel mese di gennaio.
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