Regia di Oliver Stone vedi scheda film
Un film straordinario contro la guerra: sincero, empirista, come si confà a una seria opera autobiografica. Una memorialistica bellicista autentica, che non sfigura rispetto ad altri casi tra quelli letterari noti almeno in Italia (Lussu, Remarque, Levi…
L’onestà intellettuale della pellicola mostra anche questo: dalla parte dei buoni non ci sono solo i vincenti, e nemmeno solo i perdenti; e dalla parte dei cattivi non ci sono solo i vincenti, e nemmeno solo i perdenti. Semplicemente la guerra non va mai fatta: perché a meritare un elogio è solo chi si sforza di voler bene agli altri, o quantomeno di scegliere di evitare di voler fare male a loro. Costui, quindi, non può che essere pacifista. E quando per varie ragioni è costretto a non poter essere pacifista, quando è costretto a uccidere, cerca di farlo il meno possibile, compatibilmente con tutto il resto, con un grande e continuato sforzo morale.
Tra il violento e il pacifista, Stone mostra grandi gradazioni intermedie, giustamente. Ma, in modo realistico, le approssimazioni al meglio sono molto minori delle approssimazioni al peggio, purtroppo.
L’esercito Usa pullula di neri, e la loro grandissima presenza era una novità dettata dalla storia. Il film ha il merito di mostrare il giusto egualitarismo (il sangue di neri o bianchi ha lo stesso valore, se si combatte per la patria), ma insieme ha il merito di non fare sconti a nessuno, e quindi di rifuggire da ogni retorica: tanti neri mostrano le loro grossolanità, ma anche tanti bianchi mostrano la loro grettezza, a volte enorme.
Non manca nulla della guerra, in termini di dolori fisici e morali. Con la capacità tipica di Stone, i peggiori orrori vengono resi “guardabili”: si mostrano in tutta la loro oscenità, ma non impediscono di andare avanti a vederlo (almeno per coloro ai quali il film dovrebbe essere permesso, cioè i maggiori di 14 anni). Nella stupidità anni Ottanta, rarissimi film come questo (come anche “Nato il quattro luglio”, sempre di Stone) hanno avuto il coraggio di denunciare senza equivoci, e in modo profondissimo, la gravissima retorica bellicista degli Usa, nella seconda metà degli anni Ottanta trionfanti contro il comunismo, commissionata in epoca Reagan con pellicole alla Rambo.
La fotografia, spesso nello scuro degli interni, e il realismo di sceneggiatura e recitazione sono per me degni del massimo voto. In realtà non c’è nulla di davvero memorabile: ma tutto è tenuto assieme in modo ottimale, per i tempi, il montaggio, in modo che il messaggio passi davvero. È un racconto autobiografico traboccante: purtroppo in questi casi non c’è bisogno di particolare immaginazione, ma solo di memoria, fedele a quanto si è visto. Perché, in questi casi, malauguratamente quanto si è visto è talmente imponente e complesso da superare ogni fantasia, la quale non riuscirebbe a rendere altrettanto bene un parere sensato su ciò di cui si parla: qui la fantasia perderebbe la gara con la realtà. Quella realtà purtroppo sperimentata in prima persona sulla propria pelle. Quella realtà, che a posteriori, non si sarebbe mai voluta vivere. Quella realtà che, quindi, ci si deve impegnare perché non accada più, a priori (come dicono le ultime parole del film).
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