Regia di Oliver Stone vedi scheda film
Uno dei tre (forse quattro) migliori film sul Vietnam, di una potenza e immedesimazione uniche, neppure Stone riuscirà a ripetersi come qui ed il perché ci è presto detto dal nostro connazionale Ungaretti, anch'egli partecipe diretto delle brutture della guerra: "Sovente è il cuore di un reduce il paese più straziato"
Definire "Platoon" un semplice film di guerra è riduttivo, ma non è neanche una lunga introspettiva psicologica sui soldati. Non è neppure un film sul Vietnam, nel senso comune del termine. "Platoon" è l'America.
Siamo poco dopo la metà degli anni '80, Oliver Stone è ancora misconosciuto se non per la sceneggiatura di "Fuga di Mezzanotte" di Alan Parker, ma ecco che dal nulla spuntano due bellissime opere, uno è "Salvador", l'altro è quello qui sopra. Non sono i primi lavori di Stone, prima si era dato all'horror, ma personalmente ritengo il vero e proprio inizio registico di qualità da qui; dimostrandosi un regista talentuoso ed impegnato come pochi.
Sì, quando parla di guerra Stone sa cosa significa: egli era arruolato, ed è bene ricordarlo in questa recensione, perchè i suoi ricordi in mezzo alle risaie del Vietnam su cui combatté in prima linea, giocano un ruolo fondamentale nella creazione di quello che (ad oggi) è il suo miglior film.
Non a caso, i più bei racconti ce li può dare solo chi ha vissuto la storia e Stone come un nonno si siede con noi e parla, parla senza veli di un conflitto cruento cambiandosi il nome in Chris Taylor e realizzando così un'opera imprescindibile.
Il film di Oliver Stone racchiude come quasi nessun altro il microcosmo degli Stati Uniti durante la sanguinosa battaglia del 1967 nel lontano Vietnam contro le truppe di Ho Chi Min. Un'America che voleva (vuole?) convincersi di essere il sergente Elias, cioè i salvatori, coloro dotati di moralità e coscienza, coloro che combattono per la pace e seguendo le regole, detto in una parola: i buoni.
Come in ogni film che si rispetti, questo ideale viene presto spezzato; non a caso pure un altro grande del cinema, tal Stanley Kubrick nel suo "Full Metal Jacket" (altro film che insieme a questo può comporre il trittico perfetto sulla guerra in Vietnam. Indovinate un po' quale sarà l'altro?) aveva definito ironicamente questi uomini come "omini verdi del detersivo".
L'America in realtà è il maggiore Barnes, un personaggio che definire semplicemente cattivo è sciocco e semplicistico: Barnes, come l'America, ha degli ideali e una certa epicità di fondo; come un vichingo valoroso non teme la morte ed è dotato di un sanguinario coraggio, ma allo stesso tempo, come l'America, ha una doppia faccia che cela dietro i valori e la moralità l'America vera, quella che ha incendiato mezzo Vietnam col napalm seminando morte e distruzione con la scusa di vedere se stessa come portatrice di salvezza per gli uomini liberi; è Barnes la realtà, non Elias e lo esclama lui stesso:
"Io sono la realtà!"
Dunque l'America in Vietnam è rappresentata metaforicamente dal maggiore Barnes? Al contrario: a Stone non basta creare un personaggio cardine, nella storia di Platoon sono tutti tasselli a comporre un mosaico che è quello della società americana. Se nella paura e nello shock è il soldato Taylor, se nello spirito combattivo è Barnes, l'America è però anche ipocrita e per questo c'è il codardo tenente Wolfe che è quasi peggio della schietta crudeltà del maggiore Barnes.
Non a caso, Stone si dimostra fin dagli inizi come il cineasta più politico d'America, secondo solo forse a Michael Moore.
Un altro punto a favore della pellicola è l'immersività: le scenografie sono meravigliose tanto da sentirne quasi l'umidità e la sporcizia, seconde forse solo ad "Apocalypse Now" (non sarà un caso che l'isola dove si sono tenute le riprese è la stessa?), ma se nel capolavoro di Coppola aleggiava una certa atmosfera estraniante, qui è l'esatto opposto: causato dal fattore biografico che Stone si impegna a riportare attraverso i pensieri di Taylor sulla guerra e sui suoi compagni; un realismo che nessun altro film sul Vietnam può vantare, dato che Stone alla guerra ci ha partecipato davvero.
Ci si sente quasi facenti parte di quel reggimento in terra straniera, soprattutto nella battaglia finale: durante la notte i nemici non sono più i vietnamiti, quanto i demoni interiori che risorgono nel buio della notte sottoforma di proiettili, fuoco ed esplosioni.
Per non parlare degli attori, diretti benissimo e tutti in parte. Stone, oltre che all'insieme narrativo pone l'attenzione su qualsiasi componente del gruppo dandogli una vitalità unica, dal soldato semplice su fino al generale. Al punto tale, che in questo film c'è la miglior interpretazione di Tom Berenger alias maggiore Barnes e tantissimi attori che verranno lanciati nell'olimpo di Hollywood (tra i tanti Johnny Depp, Forest Whitaker, Kevin Dillon e Charlie Sheen) incluso Willem Dafoe in un ruolo davvero tragico che insieme al colonnello Kurtz detiene senz'altro il ruolo di soldato più ricordato nel cinema sul Vietnam, la potenza resa su schermo della sua fine è unica e in molti non dimenticheranno mai più la traccia musicale negli anni a venire.
Oliver Stone ha realizzato un'opera di una potenza ed immedesimazione uniche, ben pochi altri ci riusciranno.
Mai come in questa pellicola si sente una simile empatia verso questa generazione di ragazzi costretti a districarsi tra fango, insetti e morte.
Uno dei tre (forse quattro) migliori film sul Vietnam, neppure Stone riuscirà a ripetersi come qui ed il perché ci è presto detto dal nostro connazionale Ungaretti, anch'egli partecipe diretto delle brutture della guerra:
"Sovente è il cuore di un reduce il paese più straziato"
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