Regia di Ali Aydin vedi scheda film
Basri (Ercan Kesal) è un uomo di sulla sessantina che è alla ricerca del figlio da ben diciotto anni, da quando questi se ne andò ad Istambul per studiare all'università. Non sa se sia vivo o morto, l'unica notizia che sa di lui è che venne segnalato dagli organi di polizia perchè accusato di attività antigovernative. La moglie di Basri ne è morta, e lui è rimasto solo in attesa di una risposta finalmente definitiva. Il quindici di ogni mese è solito spedire una lettera alla polizia per conoscere a che punto sono le ricerche riguardanti il figlio. Ed ogni tanto il commissario (Muhammet Uzuner) lo fa venire a rapporto per farsi dire il motivo di tanta fedele perseveranza. Basri è un dipendente delle ferrovie ed il suo lavoro consiste nel fare diversi chilometri al giorno per controllare lo stato dei binari. Svolge la sua manzione con encomiabile senso del dovere, sempre in compagnia di una radiolina regalatagli dal figlio, "per ascoltare le notizie, sapere ciò che succede fuori", dice. Soffre di crisi di epilessia, una cosa che tiene segreta ai suoi superiori ma che viene scoperta da alcuni suoi colleghi. Tra questi c'è Cemil (Tansu Biçer), un uomo attaccato alla bottiglia che sembra provare un piacere sadico a provocare Barsi nei suoi punti più sensibili.
"In seguito all'inasprirsi del conflitto turco-curdo alla fine degli anni 80, la lotta al terrorismo in Turchia assume forme particolarmente cruente. Tra il 1987 e il 2001 si registrarono numerosi casi di rapimenti e sparizioni tra la popolazione civile. Molte di queste sparizioni rimangono tuttora insolute. Il film, ambientato nel 2012, è ispirato a questi fatti".
Questo recita la didascalia che precede l'inizio del film il quale, così come diversi altri che in questi anni hanno animato la cinematografia turca, riflette lo stato di sostanziale indeterminatezza che attraversa la Turchia, un paese che guarda all'Europa come momento di modernizzazione delle sue istituzioni socio-politiche ma che si trova a fare sempre i conti con i caratteri retrivi derivanti dal cuore ancora pulsante della sua storia millenaria. Si sta rivelando un cinema molto vitale quello turco e se c'è un elemento che più di altri sembra accomunare diversi film (ovviamente, rimanendo nei limiti delle mie conoscenze), questi è il fatto che la condizione sociale e politica della Turchia rimane costantemente a fare da sfondo e delle esistenze che con il loro paese dimostrano di intrattenere un rapporto tutt'altro che pacificato. Come già accadeva con il cinema del maestro Yilmaz Guney, ciò che si instaura è un rapporto speculare ed asimmetrico insieme tra un paese assorbito nelle sue ataviche contraddizioni e i cittadini che ne subiscono (e ne riflettono) tutti gli effetti degenerativi, cittadini che sembrano sempre alla ricerca di qualcuno o in attesa di qualcosa.
"Muffa" del regista esordiente Ali Aydin (premiato a Venezia con il Leone del futuro come miglior opera prima) risponde precisamente a questa poetica che caratterizza buona parte del miglior cinema turco contemporaneo. Con una narrazione secca ed essenziale, condita da dialoghi ridotti all'osso e da un'ambientazione arida di calore (e colori), "Muffa" è un film che investe molto sulle ellissi narrative : su ciò che non vediamo ma che notiamo essere molto presente nell'esistenza assopita di un uomo addolorato dalla nascita ; su ciò che è lontano nel tempo e nello spazio ma che avvertiamo essere vicino perchè è l'attesa per una notizia risolutiva l'unico motivo che riempie la vita di Basri. ("Aspetto che qualcuno mi dica che è vivo. O che almeno mi restituiscano il suo cadavere. Se mi dicono, è morto, se mi dicono, ecco è lui, allora io vado a ricoprirlo con la terra e recito una Fatiha, se ci cresce l'erba la vado a togliere. Insomma, aspetto che qualcuno mi dica che è morto. Ma nessuno mi dice morto o vivo"). Basri vive in una sorta di vuoto pneumatico, sospeso tra un assenza la cui comprensione va ben oltre la sua legittima richiesta di volerne capire i motivi e dei sensi di colpa che producono parole rimaste a strozzare in gola. A Basri non gli resta che aspettare, è ormai l'attesa l'unica ragione della sua vita, oltre alla speranza che quest'attesa produca un qualcosa di almeno più sensato di tutto quello che di insano l'ha generata e prolungata negli anni. "Perchè non sono morto ?", chiede Basri durante un interrogatorio di polizia, dopo che l'uomo ha raccontato al commissario tutti i lutti che hanno attraversato la sua vita e della morte che tante volte l'ha sfiorato senza mai prenderselo. Una domanda tanto grave quanto indispensabile nella sua spiazzante sincerità, rivolta a se stesso più che a chiunque altro. Men che meno ad un regime politico che si è dimostrato indifferente verso il dolore di chi pratica una vita sospesa e verso il valore che occorre attribuire alla morte. Una domanda a cui lui ha saputo offrire come risposta solo la concretezza di una vita resa anonima dal monotono ripetersi di gesti sempre uguali, proprio come i binari che obbligano a non deviare mai dalla strada stabilita. Quella di Basri è una ribellione silente contro la gratuità della morte concepita da un regime politico che, probabilmente, si è portato via l'amato figlio, una morte che arriva inaspettata perchè nessun segno del destino l'ha preannunciata e nessuna persona veramente civile può ragionevolmente comprendere. E quella domanda è quanto di meglio può fare un uomo mite e devoto come Basri, lui crede nel destino e solo in questo modo sa gridare la sua rabbia repressa contro un sistema di cose che l'ha costretto ad ammuffire poco per volta nell'attesa esasperante che una qualsiasi cosa muti il suo predefinito percorso di vita. Fosse solo per dare un'altra forma all'attesa ed un nuovo scopo alla propria vita.
Anche la Turchia ha conosciuto i suoi "desaparesidos", a ricordarcelo è questo film bello di un autore da tenere d'occhio.
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