I punti di riferimento del cinema turco contemporaneo non sembrano mai partire dall’evoluzione della società nelle sue grandi trasformazioni all’interno degli agglomerati urbani. I suoi autori più significativi non sono ancorati all’indietro ma preferiscono scandagliare per gradi l’erosione morale che produce la modernità partendo dalle zone interne del paese aride e desolate, ma inevitabilmente destinate a confrontarsi con cambiamenti che mettono alla prova gli uomini e il loro grado di adattabilità e di comprensione al nuovo. Muffa ne è un esempio, il vedovo Basri operaio delle ferrovie, addetto alla sorveglianza di venti chilometri di strada ferrata, da diciotto anni non ha più notizie del figlio trasferitosi a Istanbul per studiare e marchiato dalla polizia come oppositore del regime di quegli anni. Il padre dedica tutte le sue energie all’inoltro di lettere di protesta alle autorità perché si faccia luce sulla scomparsa. Dalle didascalie iniziali si potrebbe pensare ad un film essenzialmente politico, di denuncia civile che vuole fare luce su di un periodo intorno agli anni 90 assai controverso per la Turchia, ma se flebilmente il racconto ne rievoca la natura oscurantista, la traccia si rivela un solido espediente per sincronizzarsi sull’interiorità del protagonista, attanagliato dalla ricerca del ricordo, dalla sua solitudine esistenziale, e sull’ambiente circostante evocativo di quei sentimenti che giacciono soffocati dentro di lui. Caratterizzato dall’essenzialità di dialoghi e azione, il film risulta tutt’altro che lento e povero di momenti significativi, la quasi imperturbabile maschera del personaggio principale si pone continuamente come uno specchio davanti al mondo con il quale non vuole realmente confrontarsi ma che mandandogli segnali precisi lo vorrebbe smuovere da quella muffa resistente che ricopre le sue reazioni. Le riprese ravvicinate del protagonista creano il contesto psicologico della vicenda, i piani sequenza e la camera fissa sullo scenario mostrano le implicazioni e in qualche modo le radici del suo stato d’animo. La ricerca di notizie sulla scomparsa del figlio viene usata come compensazione alla vuota esistenza, che oltre il comprensibile dolore dell’uomo, non trova un riscontro sensato nel rapporto con gli altri e tantomeno nel suo particolare lavoro. Il suo disegno di dare corpo alla sparizione del figlio tramite le lettere e l’ascolto continuo della radio ricevuta in regalo proprio dal giovane, si scontra con il tentativo di rimozione del proprio stato di invisibilità che trova il suo vertice massimo nello scontro con un collega di lavoro che dà voce a tutte le sue perplessità su come portare avanti le ricerche. Dallo sradicamento delle proprie origini al dissolvimento del nucleo famigliare, dall’assenza di relazioni umane alla condizione di isolamento in cui il lavoro lo confina, permettendogli di identificarsi con un vuoto senso del dovere in cui nascondersi. E’ l’ambiente a parlare per e con lui, sono quei binari che mai s’incrociano, quelle particolari sterpaglie e zone vegetali che sembrano mai state percorse dall’essere umano, quei non luoghi così inaccessibili e lontani dallo sguardo che solo la strada ferrata può mostrare. Ma il viaggio di Basri è lentissimo, calpestando pietrisco in silenzio senza che altri comprendano ciò che fa veramente. Il suo tentativo di scrollarsi la simbolica muffa interiore non può che manifestarsi con atti microscopici e fragorosi, disperati al limite dell’insensatezza e contraddittori, e proprio nella sua azione c’è il seme di quella trasformazione di una mutazione genetica dell’uomo che si trova davanti novità, rivoluzionamenti, nuovi muri ideologici, nuove barriere frapposte ai propri sentimenti. L’incomunicabilità e la mancanza di comprensione, sono l’anticipazione del consumismo, di un nuovo assetto sociale ugualmente insensibile e privo di risposte. Benvenuto Basri, l’occidente aspetta anche te.
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