Regia di Ali Aydin vedi scheda film
Vincitore del premio Opera Prima “Luigi de Laurentiis” (Leone del futuro) e insignito del marchio di qualità del Sindacato Critici, Muffa (Mold per il mercato internazionale e Küf in originale), è stata sicuramente una delle più interessanti e belle sorprese dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia (sezione “Settimana della critica”).
La pellicola in questione che ho visto al Lido a settembre e che ora finalmente approda sui nostri schermi, è un’opera civile, densa e palpitante realizzata dal giovane regista Ali Aydin (32 anni) che racconta con umano e doloroso sguardo una storia privata e universale che porta in primo piano la repressione politica in atto nella Turchia destrorsa degli anni ‘90 non meno feroce di quella perpetrata dalle dittature dell’America Latina - Cile e Argentina in testa – (forse solo meno conosciuta, anche se riferita a una nazione a noi geograficamente molto più vicina) ed apre così uno squarcio altrettanto tragico sui “desaparecidos” di quel paese.
“Negli anni ’90 – dichiarò lo stesso Aydin nel corso di un’intervista rilasciata “a caldo” a Cristina Paternò – per lo Stato turco l’espressione di idee diverse rappresentava un pericolo. Il governo era di estrema destra e si è macchiato di pesanti crimini. Molte di quelle persone che li hanno progettati e messi in atto, sono adesso sotto processo, ma la tragicità di quegli avvenimenti non si estingue certo per questo, perché la sparizione di studenti attivisti erano in quegli anni molto numerosi e all’ordine del giorno e le ferite tutt’altro che rimarginate: la gente di sinistra che manifestava idee diverse, era portata via anche senza un particolare motivo solo per il fatto di essere critica e in contrasto col potere dominante. In Turchia sono moltissime le persone che sono scomparse senza lasciare alcuna traccia, nemmeno quella dei loro corpi trucidati. Gli studenti si riunivano di solito di sabato davanti alla scuola superiore più importante di Istanbul, la Galatasaray e nel 1999, quando si venne finalmente a sapere cos’era accaduto e che la polizia aveva provato a manipolare le prove, le madri degli scomparsi hanno cominciato a darsi anche loro appuntamento ogni sabato davanti allo stesso Liceo, proprio come le madri argentine di Plaza de Mayo (vengono chiamate per questo “le madri del sabato”) per cercare di ottenere così dal nuovo governo le risposte che non hanno mai avuto sulla sorte toccata ai propri figli. Io purtroppo non le ho conosciute queste donne, ma ho sentito il bisogno di parlare ugualmente della cosa. Nel film che ho realizzato, ho provato così a rappresentare il punto di vista di chi non ha vissuto in prima persona quegli eventi. (…) Non è che adesso in Turchia le cose vadano molto meglio perché la repressione purtroppo continua anche se in maniera meno cruenta, e anche recentemente centinaia di giornalisti e avvocati sono stati accusati di associazione sovversiva per aver difeso i diritti umani, in particolare quelli del popolo curdo, ma quello che è accaduto in passato, è comunque molto diverso rispetto a quello che succede adesso, decisamente più grave e inaccettabile. Oggi infatti le cose sono magari più confuse ma è comunque possibile reagire: e c’è una lotta a viso aperto da parte degli intellettuali e la repressione non è più così spudorata. Certo, la situazione resta complicata, ma non è altrettanto tragica, altrimenti non avrei potuto realizzare questa pellicola, anche se non è stato semplicissimo farlo”.
Il titolo scelto dal regista per ribadire “il diritto di sapere” (soltanto la conoscenza reale delle cose consente una valutazione oggettiva, e solo quella permette una presa di coscienza corretta e consapevole) ha un valore decisamente “simbologico” ed una valenza altrettanto metaforica, particolarmente efficace per cogliere e mettere in luce le contraddizioni profonde di un paese “in apparente ricerca di un futuro” come può sembrare essere la Turchia odierna, e nel rappresentarne invece il suo universo sostanzialmente privo di orizzonti e di sbocchi, chiuso, ripiegato su se stesso e incapace di metabolizzare pienamente il suo passato, quasi sospeso nel tempo e in una modalità di concepire il potere e la vita dentro la quale, come ci ricorda Gianluigi Bozza, non ci si può che sentire spaesati, fuori posto: la “muffa” appunto che è infatti per definizione, un segno di marcescenza e di decomposizione che solitamente si forma sulle cose vecchie e stantie, chiaro indizio di un qualcosa che non va, di un luogo umido e malsano che non ha un’adeguata ventilazione e difetta di un’esposizione alla luce solare che è spesso insufficiente. Termine dunque quanto mai appropriato (ed anche ben utilizzato, figurativamente parlando) per indicare quel rimanere troppo inattivi e inerti in una condizione di abbandono e di solitudine, ma che riguarda anche l’inadeguatezza di stare al passo con i tempi ed una conseguente mancanza di attualità e di adesione a una differente concezione dell’esistenza più moderna e “progressista”. Un segno negativo insomma che trasmette il disagio di dover fare i conti con una nazione che non si è presa sufficiente cura dei luoghi, degli oggetti e della difesa dei diritti di chi ci vive dentro, e non può che documentare come conseguenza, un mondo che, per mancanza di alternative e di possibilità di cambiamento, si sta disintegrando (ammuffendo, appunto).
Il risultato pratico, ci regala una pellicola per più di un verso esemplare che è anche un singolare esempio che ci (ri)propone – e se ne sentiva davvero un gran bisogno - un rigoroso e impegnato progetto di cinema d’autore, realizzato per altro con uno stile molto personale ed appropriato, oltre che di particolare interesse anche espressivo, tutto giocato su lunghi silenzi, preziosi e interminabili piani sequenza di impeccabile maestria anche formale e di inquadrature fisse di altrettanta pertinenza, che confermano l’ottimo stato di salute di una cinematografia in forte movimento proprio nel settore delle “idee” che merita attenzione ed interesse.
Il regista sviluppa infatti senza alcuna smagliatura nella struttura narrativa e con una notevole omogeneità stilistica che come ho già accennato prima è di notevolissima e consolidata qualità e fattura, una vicenda che anche espressivamente diventa parte integrante degli ambienti che ne determinano il quadro temporale e geografico, il tutto ripreso e rappresentato con tagli e prospettive che schiacciano gli interni, come se non ci fossero altro che scantinati o magazzini e dove anche gli esterni risultano altrettanto “claustrofobici”, privi come sono di orizzonti e di “prospettive in profondità di campo”).
Proprio per questo, nel film ogni sensazione relativa a una possibile via di fuga risulta annullata, esclusa proprio dalla modalità utilizzata per la rappresentazione delle cose e dei rapporti: i personaggi mantengono sempre fra loro una distanza che diventa quasi incolmabile, e anche i loro incontri appaiono più come una costrizione consumata controvoglia che una effettiva “necessità” spontanea e condivisa. Il ritmo narrativo è poi molto disteso, lento e misurato, con movimenti e silenzi che sembrano voler riflettere il disorientamento e la stanchezza, in quella che in sintesi è la lotta di un uomo che combatte contro un potere impermeabile alle sue richieste, e dove sono appunto soprattutto il buio, i rumori, le luci fioche, le scansioni sempre molto misurate ed essenziali delle parole (che proprio per questa loro peculiarità tutta in sottrazione diventano più dure delle pietre), ad esprimere con inusitata forza proprio l’oscurità e quel senso del vuoto (dentro al quale – e cito ancora Bozza – tutte le muffe opprimenti che la Storia con i suoi eventi ha prodotto nelle vicende di ognuno (…) ci accompagnano alla scoperta di una infelicità – decisamente kafkiana negli sconcertanti e assurdi esiti che vanno contro ogni umana comprensione – che pare il clima esistenziale latente di un intero mondo).
Come già confermato dalle parole dell’autore, la storia parte dalla cronaca politica del paese, e prende spunto dalla scomparsa di numerosi giovani studenti avvenuta ad opera della polizia di Stato nella prima metà degli anni ’90, oltre che dai conseguenti episodi di una protesta permanente delle loro madri che in mancanza di una giustizia impossibile da ottenere, volevano almeno conoscere la sorte toccata ai loro figli.
A mio avviso però l’intento del regista – e l’opera che ha realizzato è in questo senso particolarmente illuminante – non era tanto (o per lo meno non soltanto) quello della denuncia, quanto il desiderio di raccontare dentro questa cornice storicamente veritiera – una condizione esistenziale di dolore, sofferenza e solitudine.
Al centro del racconto è Basri, cinquantenne guardiano delle ferrovie, che trascorre le sue giornate percorrendo a piedi decine di chilometri lungo i binari perché il suo lavoro proprio quello di controllarne l’efficienza.
Schivo e silenzioso, è appesantito dalla tristezza di un dolore senza fine. Abita da solo in una povera casa isolata in uno sperduto paese di montagna completamente tagliato fuori dal mondo e, dopo la morte della moglie, ha come unica ragione di vita, quella di scoprire la verità sulla scomparsa del figlio sparito da quasi vent’anni mentre era studente a Istanbul, dopo essere stato fermato dalla polizia per presunte attività antigovernative.
Mantiene i suoi contatti con il mondo ascoltando i notiziari utilizzando una vecchia e malmessa radio di fabbricazione sovietica, ma di fatto è come se si tenesse volutamente distante dalla realtà, anche se l’uomo non si arrende e non accetta di non conoscere una verità che gli spetta di diritto sulla sorte toccata al ragazzo e la sua testardaggine si è trasformata in una snervante attesa senza fine che lo sorregge nella disperazione.
Visto che ufficialmente le notizie si fermano al momento del presunto arresto del ragazzo, ogni due settimane Basri scrive una lettera al locale commissario di polizia per chiedere notizie del figlio e ragione della sua misteriosa scomparsa (quando anni prima raggiunse Istanbul con la moglie, gli fu riferito solamente che il giovane era un ribelle antigovernativo di cui, dopo i controlli, si erano perse le tracce) senza però ottenere alcuna risposta.
Appare subito chiaro anche allo spettatore, che le speranze di Basri sono assolutamente utopistiche. Forse ne è consapevole egli stesso, tuttavia è proprio l’interminabile incertezza del “sapere” a cui il protagonista volontariamente si sottopone nell’illusione di un qualcosa che non si realizzerà, che è poi alla fine l’unica ragione capace di mantenerlo il vita.
Il cuore del film (come già accadeva in Hunger) è comunque anche qui affidato a un lungo, straordinario piano-sequenza a camera fissa di circa quattordici minuti di durata che arricchisce di sfumature, oltre che di una dolente verità il confronto fra due figure contrapposte e durante il quale il novo commissario che si è finalmente deciso ad incontrarlo, prova inutilmente a convincere Basri a rinunciare alla sua lotta e a smettere per sempre di scrivere e inoltrare lettere che non riceveranno risposta.
Seduti l’uno di fronte all’altro agli estremi di un grande tavolo illuminato non fiocamente, ma soltanto al centro – come a volerne accentuare la distanza che li spara - i due si studiano, si scrutano, si confrontano, misurando parole e silenzi: entrambi testardi e determinati, non hanno infatti lacuna possibilità di arrivare a un accordo, e il confronto diventa così sempre più duro e coinvolgente.
Se il commissario diventa così l’incarnazione di un potere crudele (e come già prima accennavo quasi kafkiano), Basri raccoglie invece su di sé il senso di un personaggio che sembra avere non solo le fattezze esteriori, ma anche la profondità di una figura quasi dostojeskiana, perché segnata non solo dal dolore, ma anche da un malcelato, profondo senso di colpa, scatenato dal fatto di soffrire di attacchi di epilessia mai dichiarati e che per la paura di perdere il posto, ha sempre cercato gelosamente di tenere nascosti. Sarà proprio questa malattia a spingerlo alla fine per salvaguardarsi, verso soluzioni estreme, in un in crescendo che si tinge di giallo (e che non svelerò per non togliere interesse ai possibili spettatori richiamati alla visione e che io consiglio vivamente), che il film, fedele fino in fondo a un preciso stile molto trattenuto, racconta con estremo pudore e rigore.
Come ultima annotazione, posso aggiungere comunque che l’ispettore alla fine decide di occuparsi della cosa. Rintraccia così una consunta e sbiadita carta d’identità del figlio del ferroviere, attraverso la quale riesce poi a consegnare all’uomo un documento che gli consentirà di ritirare quello che resta delle povere spoglie del ragazzo, ucciso per la semplice ragione di essere stato un dissidente del regime.
L’attesa è dunque finita per Basri, ma con questa si è estinta anche l’ultima ragione che aveva consentito all’uomo di sostenere le fatiche quotidiane e le sofferenze della vita. Adesso gli rimane soltanto l‘insopportabile solitudine e il senso di una colpa che diventa adesso più esasperata e insostenibile.
Sotto il profilo tecnico, da citare l’ottima resa di una fotografia “spenta”, ma al tempo stesso corposa e suggestiva (e soprattutto tutt’altro che accademicamente “compiaciuta”) opera di Murat Tuncel e l’interpretazione coinvolgentemente pertinente di un piccolo manipolo di straordinari attori perfettamente calati nei loro ruoli che ci vengono restituiti tutti con la necessaria e differenziata sfaccettatura delle corrispondenti psicologie, a conferma di una cosciente, univoca, e soprattutto condivisa visione delle cose (nell’ordine, Ercan Kesal, Muhammet Uzuner e Tansu Biçer).
Termino ritornando alle parole del regista – anche autore della corrispondente sceneggiatura – riprese di nuovo dalle dichiarazioni rilasciate a Venezia alla Paternò: Nel film ho voluto aggiungere anche alcuni elementi di distrazione, come avviene per altro nella vita reale, e che riguardano per esempio il collega Cemil e gli eventi che ruotano attorno al lavoro di capostazione. La coscienza, in fondo, non ha un’unica dimensione.
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