Regia di Dorota Kedzierzawska vedi scheda film
La vecchiaia vista da dentro. Dall’interno di quella roccaforte inespugnabile, perché protetta dalle robuste mura della rassegnazione. Dall’alto di ciò che la vita le ha insegnato, l’anziana Aniela ha la sensazione di poter dominare il mondo. Il suo isolamento – in una casa troppo grande per lei, con la sola compagnia del cane Phila – la pone in una posizione di padrona incontrastata del proprio piccolo angolo di universo. Aniela osserva i vicini coi binocoli, perché nulla degli avvenimenti circostanti le deve sfuggire. Spiando le mosse di suo figlio Witus e di sua nuora, capisce che stanno tramando contro di lei. E sotto il pianoforte è nascosto un segreto del quale è l’unica custode. Quella donna conduce un’esistenza solitaria ed esclusiva, vivendo in una dimensione che soltanto a lei appartiene: è il regno dei ricordi personali, che si trasformano in sogni ad occhi aperti, resuscitando le giovanili illusioni e un amore cancellato dal tempo. La sua mente è totalmente impegnata in un monologo col passato, da cui la distrae soltanto la preoccupazione per un presente sul quale deve assolutamente mantenere il controllo. L’incipit del film, ambientato prima nello studio di un medico dai modi sbrigativi e poi in mezzo ad una strada trafficata, introduce la diffidenza di Aniela nei confronti del mondo esterno, che, a suo giudizio, è troppo irrispettoso della sua dignità. Da quando anche la sua governante è morta – il che, a suo dire, è un fatto avvenuto a tradimento - la sua abitazione è divenuta un rifugio da ciò che considera l’altrui cinica insolenza e banale mediocrità. Nel ritrarre la sua vita quotidiana, l’obiettivo della macchina da presa fa insistentemente la spola tra il suo volto ed il muso del cane, soffermandosi spesso su dettagli apparentemente insignificanti – una mela che viene sbucciata, un insetto che beve il liquido contenuto in un bicchiere - a sottolineare un’esistenza sprezzantemente chiusa dentro le proprie abitudini, senza alcuna apertura verso il cambiamento. Aniela è schiava della stessa sterile ripetitività che è solita stigmatizzare nei vicini: si indispettisce nell’udire, tutti i giorni, quella domanda sempre uguale, Kochanie, to ty? (Amore, sei tu?) con cui la moglie accoglie il marito di ritorno dal lavoro. Però lei stessa è refrattaria alle novità, a cominciare dall’idea di abbandonare quella villetta ormai cadente e sommersa da una vegetazione incolta. Aniela fa sempre le stesse cose, non ha più nessuno da amare, ed arriva a desiderare la morte. In quella aridità senza scampo, anche il dolce suono della memoria finisce per perdere la sua armonia, cedendo il posto ad un angosciante silenzio dell’anima. Il bianco e nero di questo film è un poetico grigiore, la tinta di un sentimento logorato dallo scorrere degli anni, di una fotografia sbiadita, di una visione sfumata dall’oblio. Di fronte a questo dipinto divenuto polveroso e opaco, si avverte il bisogno di far ritornare i freschi colori della speranza, e di ripristinare la vivida musica di sottofondo. Forse c’è uno spiraglio. Magari basta lasciare una finestra aperta, perché l’aria del futuro possa entrare in quelle stanze su cui grava una stanchezza antica, ferma nel rifiuto di guardare avanti. Time to Die è la tetra elegia di un torpore che conosce un inatteso risveglio, riuscendo a superare il senso della fine. Il racconto di una svolta che si prepara con il passo lento della ritrosia e della ponderatezza, e si avvera senza scomporre il quadro d’insieme. La pesantezza sboccia restando ancorata al suolo. Perché, in un modo o nell’altro, l’ora è tarda, ed è comunque tempo di morire.
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