Regia di Pablo Berger vedi scheda film
Per anni è stato nel cassetto di Pablo Berger, tra i progetti impossibili. Poi è arrivato The Artist, con i suoi riconoscimenti, il suo successo, il suo pubblico. E Blancanieves, d’un tratto, dal cassetto dell’oblio è passato a quello dei film da fare, assolutamente. Il premio a San Sebastián e quelli ai Goya (10 su 18 candidature) hanno poi confermato la felicità dell’intuizione: accostare il senso per la fiaba del contemporaneo (nel cinema d’autore, vedi Agnès Jaoui, come in quello strettamente commerciale, vedi le due versioni di Biancaneve uscite nel 2012) a un’operazione radicalmente nostalgica, per unire insieme ingenuità di linguaggio e folclore, l’infantilismo adorato dal pubblico con i ricordi di una nazione. Così nell’Andalusia degli anni 20 si apre il sipario sulla storia della figlia di una leggenda decaduta della corrida, di una matrigna crudele che cerca d’ucciderla, di un gruppo di nani che raccoglie l’orfana e che ne fa un’acclamata torera, fino a quando non entra in scena una mela fatale. Il tutto narrato in b/n, con l’armamentario elementare del cinema muto, in una scrittura meno calibrata rispetto a quella di The Artist, meno sfacciatamente teorica e metariflessiva, libera invece di eccitarsi e di citare fuori tempo, di passare dalla prevedibilità della fiaba al lessico surrealista di quegli anni, semplificato e in fondo addolcito nonostante perturbanti cosce di pollo, baracconi necrofili, nani e Freaks di Browning. Rimane, in ogni caso, un esercizio di stile che non sa cosa dire del mondo, rifugiato com’è in un passato fatto feticcio.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta