Regia di George Stevens vedi scheda film
La montagna e il topolino
Gesù dice a Lazzaro: "è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare in paradiso". Alla luce di The Greatest Story Ever Told, si può tranquillamente affermare che "è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un kolossal biblico rendere l'idea del sacro al cinema".
Il "gigante" di Stevens manca clamorosamente il bersaglio (come molti altri film biblici), tradendo almeno uno dei messaggi che, con tanto sforzo, cerca di cocretizzare sullo schermo. Risulta paraddossale vedere il Cristo predicare povertà in formato Superpanavision 70 (aspect ratio: 2,76:1. Siamo quasi dalle parti del Napoléon di Gance), in una pellicola costosissima e debolissima, costellata di stars (scusate il cortocircuito semantico) fuori luogo in un capolavoro di miscasting come pochi se ne sono visti.
Nemmeno quel grandissimo attore che è Max Von Sydow risulta minimamente convincente nei panni di un Cristo senza spessore. Donald Pleasence è un diavolo senza fascino, Telly Savalas un Ponzio Pilato gigione, John Wayne un centurione monolitico con la caratterrazione di un sasso buttato lì per puro horror vacui. Charlton Heston fa sfoggio del suo fisico nei panni del Battista, l'intreccio con Erode (Martin Landau) e Salomé è solo accennato e risulta incomprensibile per chiunque già non possegga le conoscenze adeguate.
Tutto è approssimativo, appiattito, stirato, reso valido solo per qualche chirichetto dall'estasi facile: il risultato è un film alla Cecil B. DeMille purgato degli aspetti che lo rendono interessante.
Se è vero che non esiste uno stile per rapprensentare il sacro, è tuttavia vero che vi sono metodi più adeguati di altri, anche senza essere Bresson, Ozu o Dreyer.
Certamente non è il metodo adottato da La più grande storia mai raccontata, opera che sicuramente soffre di un qualche complesso di impotenza e che cerca di risolverlo nelle dimensioni (dello schermo, del cast, del budget, della durata, delle scenografie). L'impotenza di un prodotto industriale che vorrebbe essere arte senza averne i presupposti ma condividendone le ambizioni più elevate, forse l'ambizione più elevata di tutte, la rappresentazione del trascendente.
Paul Schrader, nel suo celebre Il trascendente nel cinema, descrive questa tipologia di film e il loro rapporto con lo spettatore: "questi film inducono davvero una fede [...]. Tuttavia questo genere di fede non può con tutta onestà essere attribuito al Complementare Altro: si tratta più precisamente di una risposta affermativa a un giusto dosaggio di materialità cinematografica e sentimenti religiosi". Ancora: "il pubblico viene agevolato e incoraggiato nel suo desiderio di identificarsi nel personaggio e di lasciarsi coinvolgere nella trama e nell'ambientazione. [...] Lo scontro tra umano e spirituale viene evitato. L'evento decisivo non è una spiazzante scossa stilistica, ma costituisce il culmine dei mezzi temporali ricchi adoperati nel corso del film. [...] Ma questo non eleva lo spettatore al livello di Cristo, bensì abbassa Cristo al livello dello spettatore".
Parole sante...
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta