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La città ideale

Regia di Luigi Lo Cascio vedi scheda film

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La recensione su La città ideale

di davidestanzione
4 stelle

Michele Grassadonia è essenzialmente un ecologista palermitano trapiantato a Siena, secondo lui “la città ideale”. In una strana e paradossale notte Michele si ritroverà immerso in dedalo di indagini e zone d’ombra dove è impossibile vederci chiaro, dove la verità è quanto di più irraggiungibile e sostanzialmente irrilevante, perché tutto finirà col girare intorno all’incubo e alle sue implicazioni collaterali.



Al suo esordio assoluto alla regia, l’attore siciliano Luigi Lo Cascio, unico italiano in Concorso alla Settimana della Critica di Venezia69, azzarda, è proprio il caso di dirlo, un’opera prima pretenziosa e d’atmosfera, stracolma di ammiccamenti ma sostanzialmente malferma. Un film alla costante ricerca di un baricentro che però circostanzia così tanto il respiro e il raggio d’azione da non convincere quasi mai, da non interessare davvero e fino in fondo in pressoché nessuna circostanza.

I limiti albergano già nella caratterizzazione del protagonista, interpreto dallo stesso Lo Cascio. Appiccicarsi addosso la doppia veste contemporanea di attore e regista, lo sappiamo, in un esordio può rappresentare un limite ingombrante, ma qui c’è anche dell’altro: il personaggio è a dir poco improbabile, gira a vuoto per i luoghi del film come un fantasma impalpabile, è saturo di piccole manie che però non vengono mai approfondite dalla sceneggiatura e che restano marginali e abbozzati puntelli, conformi alla fattura generale del film stesso, per altro. Lo Cascio contrae gli occhi a fessura, mantiene rigide e impassibili le pupille, prova ad accordarsi sulle stesse corde atmosferiche del film ma la compenetrazione gli riesce malissimo.

Perché se la veste scarnificata di certe ambientazioni potrebbe anche reggere, è il personaggio in sé a non avere lo spessore adeguato per far decollare la storia né tantomeno le sfumature sensoriali che la avvolgono.

Lo Cascio ricerca l’aplomb di un film estetico, ma scivola su una calligrafia fin troppo di riporto. Prova a strizzare l’occhio a Kafka (già portato a teatro da Lo Cascio con il monologo “La tana”, da lui scritto e interpretato nel 2005 e tratto da uno dei racconti del grande Franz), ma è un ambizione lodevole che non viene mai dispiegata del tutto e che soprattutto non è supportata da un adeguata strutturazione, né registica né narrativa né di mera scrittura. Perdendosi infine nell’etere, come molte cose del film.



Altrettanto fastidiosa è poi la ricerca spasmodica di un’identità di genere, anzi, di multi-genere: Lo Cascio mescola indagine sociologica, critica di costume sul modello oggi largamente e malamente inapplicato del cinema civile italiano vecchia maniera, nonché noir e incubo claustrofobico. Quando vien fuori quella frase sull’animo umano secondo cui gli uomini cercherebbero la vittoria e non la verità le tensioni letterarie e antropologiche appaiono davvero forzate oltre ogni limite. Lo Cascio guarda Petri, ma lo vede davvero da lontanissimo: la critica al sistema giudiziario incrocia piuttosto l’estetica della serie tv nostrana, non certo il raffinato prodotto d’autore cui teoricamente aspirerebbe,per non parlare poi della stereotipata presenza degli archetipi siciliani (la madre chioccia e apprensiva, l’avvocato difensore di gente losca e opportunista, interpretato da un Burruano dalla sempre notevole contrazione mimica).
I ticchettii grossolani e la postura da incubo al neon dal canto loro di sicuro non aiutano l’insieme, vedi per esempio la scena del corpo femminile, anch’essa dall’ispirazione riconducibile a un cugino molto lontano di Petri e vagamente squinternato.

La frase pronunciata intorno al finale secondo cui “Ogni regista ha il suo stile” sembra quasi una giustificazione in calce. Frase veritiera, per carità, ma quello del Lo Cascio regista va sicuramente epurato dall'obiettivo, senz’altro proibitivo per un esordiente, di un film che tocchi mille corde insieme e che lo faccia oltretutto non rinunciando ad un’accezione colta e letteraria, a un infiocchetta mento onirico e perturbante.

Nonostante il film sia più che dimenticabile (non a caso inserito nella “palestra” della Settimana della Critica), va comunque riconosciuto il merito l'aver osato compiere un tale tuffo da un grattacielo di cento piani. Atterrato e culminato purtroppo sul marmo solidissimo, con tanto di finale con emblematico sorriso pseudoantonioniano ad azzerrare e insieme molteplicare i dubbi circa un senso ultimo del film. Dubbi che però onestamente non sovvengono nel corso della visione, dato l'altissimo tasso di improbabilità.

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