Regia di Franco Maresco vedi scheda film
Dopo il divorzio artistico da Daniele Ciprì, col quale condivise la gloriosa stagione della Cinico tv e alcuni lungometraggi di furore iconoclasta, Franco Maresco torna a ribadire il proprio amore per il jazz con un altro omaggio - dopo quello fatto a Duke Ellington - a un altro grande, Tony Scott, al secolo Antonio Sciacca. L'avventura jazzistica e umana di Tony Scott ebbe inizio negli anni '40, quando i numi tutelari del clarinetto jazz erano quelli di Benny Goodman e Artie Shaw. Nonostante gli incontri con i grandi maestri come Lester Young e Charlie Parker, con i quali condivise ripetutamente i palcoscenici di mezza America, negli anni '50 il declino del jazz costrinse il nostro uomo a ripiegare su esibizioni in locali di spogliarello, nonostante nella stessa epoca avesse fatto parte dell'orchestra di Duke Ellington. Incessantemente alla ricerca di novità e sperimentazione, alla fine del decennio Scott fa un viaggio in Giappone e l'incontro con la cultura orientale lo mette nelle condizioni di diventare l'autentico precursore della World Music e della New Age con un disco capolavoro come Music for zen meditation. Ma dall'Asia è anche costretto a fuggire per ragioni che rimangono a tutt'oggi ignote, si dice perché fosse collaboratore della CIA. Il clarinetto, lo strumento che privilegia e per il quale ha conteso per anni a Buddy De Franco il titolo di numero uno al mondo, negli anni '60 - con l'arrivo del free jazz e delle avanguardie - diventa fuori moda e Scott si trova ancora una volta a faticare per trovare una collocazione adeguata nel panorama jazzistico. La svolta, decisamente in peggio, arriva nel 1970, quando decide di stabilirsi in Italia: prima nell'originaria Sicilia, quindi a Roma e infine a Milano, in un precipitare continuo di condizioni che se inizialmente lo portano a suonare con Romano Mussolini - un pianista che deve il proprio successo unicamente al fatto di essere il figlio del Duce - in seguito lo sminuiscono a rango di musicista di intrattenimento per alberghi e ristoranti, feste rionali e sagre paesane, fino a qualche sporadica e tristissima apparizione in fiction televisive di infimo livello.
Maresco dimostra ancora una volta di avere talento e ironia da vendere: la sua voce accompagna sardonicamente lo spettatore per le quasi due ore e un quarto di film, alternandosi a spezzoni di film d'epoca, testimonianze di colleghi, parenti e amici, brani di repertorio e tracce di interviste. Dal suo lavoro emerge il ritratto di un jazzista che, nel momento in cui si trasferì in Italia, non solo vide eclissarsi clamorosamente la sua fama, ma che assunse al tempo stesso i connotati da santone (ricorda un po' il nostro Remotti), artista perennemente fuori sincrono nella diverse epoche, più apolide che cosmopolita, costretto - negli ultimi anni di vita - persino a mendicare un letto, lui che aveva suonato con Ellington e Parker, anche per via di quel caratteraccio ossessivo, paranoico, egocentrico e borderline che lo aveva trasformato, suo malgrado, in una sorta di clown da palcoscenico, incapace di trovare un posto persino da morto (l'ultimo soffio è datato 2007), con il suo corpo che non trova pace tra i cimiteri di quella terra che è la Sicilia.
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