Regia di Takashi Miike vedi scheda film
Ormai chi sia Miike lo sanno anche i muri. Regista giapponese estremo in tutti i sensi, prolifico come pochi (7 film all'anno, se non di più), è diventato famoso per le sue pellicole piene di iperviolenza, a tratti oltre ogni sopportazione, pratiche sessuali alquanto singolari, famiglie disfunzionali, sangue e, a volte, metafore socio-politiche. Dopo qualche anno consacrato ad un cinema più commerciale e d'intrattenimento (il bellissimo 13 Assassini, il pessimo Yattaman), nel 2012 al Festival del Cinema di Roma torna per presentare quello che si annuncia come un ritorno alle origini, un tour de force grondante sangue e sadismo.Però, Lesson Of The Evil (in italiano, Il Canone del Male), tratto da un manga di cui non conoscevo l'esistenza, non è all'altezza delle aspettative, nonostante sia un film sopra la media e intriso di una cattiveria fuori dal comune. La prima parte, lenta e metodica come il protagonista, è un comune giallo basato sul sospetto nascente: il passato oscuro di un personaggio, elementi inquietanti, cicatrici e suicidi sospetti. La fotografia fredda e la regia inquietante di Miike, fatta di lenti movimenti di macchina che aumentano l'angoscia nello spettatore, a tratti si lasciano andare a qualche sprazzo di humor nero, tratteggiando il profilo di un serial killer psicopatico 2.0 (fa utilizzo di cellulari e riesce a bloccare l'accesso a internet prima per non far copiare gli studenti, poi per impedire loro di chiamare aiuto), carismatico e affascinante, comune e, per questo, terrificante. Poi, intorno all'ora di film, il male del titolo si mostra in tutta la sua potenza distruttiva e inizia la mattanza tanto annunciata e attesa. Purtroppo, è proprio qui che la pellicola pecca. Con ispirazioni cronenberghiane (il fucile che diventa carne) e situazioni molto simili a Battle Royale, Miike non sa che strada prendere, se quella seria e angosciante di Elephant di Gus Van Sant (sempre di un massacro in una scuola si parla) o quella scanzonata e ironica di The Faculty di Robert Rodriguez. La tensione non manca e aumenta continuamente, mentre ciò che difetta è il sangue. Non fraintendetemi, i globuli rossi ci sono, e parecchi, ma sono molto più vicini a quelli esagerati e ironici del pulp che a quelli terribili del cinema del regista, e si limitano a schizzi di qualche metro che imbrattano i muri bianchissimi dei corridoi. Lo sterminio avviene, e ci si sente quasi in colpa a sorridere per le battute sarcastiche del professore assassino mentre fa saltare la testa di una ragazzina urlante. Certamente la cattiveria è tantissima e raggiunge il suo apice nella sequenza più riuscita e miikiana del film: l'esecuzione di almeno dieci ragazzi in sincronia con le note di Mack The Knife. Gli young adult degli ultimi anni dovrebbero imparare da scene come questa. Ciò che purtroppo manca o è presente solo in parte è la metafora politica quasi sempre presente nel cinema del regista giapponese (persino nel brutto Visitor Q), che qui si limita al decadimento del sistema educativo in Giappone, distrutto da se stesso (il professore Hasumi), tematiche già affrontate in meglio da Tetsuya Nakashima nel bellissimo Confessions. Niente di nuovo da quello che probabilmente è un grande maestro del cinema "post-tutto" (e da quello che se non facesse film sarebbe messo peggio dei protagonisti delle sue pellicole), è un buonissimo film, ma era lecito aspettarsi qualcosa di più, anche a causa della sua indecisione sul tono dell'intera opera: si ride, ma non abbastanza, si è spaventati, ma non troppo. Le due ore passano velocissime, ma l'occasione mancata è dietro l'angolo.
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