Regia di Danny Boyle vedi scheda film
L’inizio di In trance è nel segno del più classico thriller d’azione, il furto di un’opera d’arte con l’uso dei binomi più facili, il buono e il cattivo, l’oggetto-valore a cui entrambi tendono, per poi discostarsene piuttosto in fretta come se il regista D.Boyle volesse indirizzare il suo e il nostro sguardo su un altro cinema che fino ad oggi non lo aveva contraddistinto. Non che la velocità di ripresa o la frenesia del montaggio siano specifiche scelte relative a questo film, per Boyle è la cifra stilistica, la copertina ideologica, si tratti di tossici scozzesi, di precoci indiani dalla memoria buona, o ancora peggio di allestimenti scenografici per manifestazioni sportive internazionali. E’ piuttosto indicativa la scelta caduta sul regista per affidargli l’apertura delle olimpiadi londinesi, preso evidentemente come garanzia per rappresentazioni dalle capacità dinamiche e ritmiche, con ottima presa sul pubblico giovane, ma anche perché rappresentante di un cinema tutto sommato istituzionalizzato, fintamente ribelle, rassegnato alla stagnazione ideale. Boyle negli anni è passato per la fantascienza e per il dramma per poi sempre ritornare sui suoi passi, per sempre ripartire dallo stesso punto. In trance è un lavoro dignitoso, un divertissement serale anche appetibile coi suoi giochi sul doppio elevato a qualsiasi elemento filmico, colori compresi, ma essenzialmente rimane generalista, cioè può andare bene per tutti perché non scandaglia nessun aspetto di uno script che tanto per fare un nome, Nolan di Iception e di Memento, ha proposto con dettagli più incisivi sia sul piano della costruzione, della visionarietà, che sul profilo psicologico dei protagonisti. Il personaggio femminile, la psicologa Elizabeth,(la tarantiniana Rosario Dowson) è il simbolo del cinema di Boyle, senza approdo, contraddittorio e poco convincente. L’idea dell’uso dell’ipnosi per ritrovare la tela rubata che lo svanito complice ha cancellato dalla sua memoria diventa un tramite debolissimo che non sviluppa la storia in essere che per un film di genere è il suo pepe, ma la riduce a dei flashback puramente funzionali alle contorsioni del racconto binario che tuttavia necessiterà di una dilungata spiegazione in prima persona da Elizabeth stessa. Un ultimo appunto per l’altra cifra forte di Boyle, la musica, che supera l’immagine come nei migliori videoclip, addirittura le anticipa e ne manipola il contenuto per altro sempre prive di un degno fuoricampo che la schiettezza del regista non si può permettere, perché occupato ad alimentare il racconto con un susseguirsi di colpi di scena che se da un alto tengono viva l’attenzione, dall’altro svelano l’intima debolezza di una storia destinata a sopravvivere solo grazie ai suoi elementi spettacolari.
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