Regia di Danny Boyle vedi scheda film
Non si può dire che Boyle non sia poliedrico e capace di sperimentare. Dopo l’Oscar per The Millionaire (2008) il suo cinema di “movimento” si era incastrato tra due rocce in 128 hours (2010) . In quel caso era la mente a dover trovare vie di fuga da quella realtà per cercare di non soccombere alla disperazione. Ora la fuga è verso l’interno, alla ricerca di una realtà che sembra non aver più consistenza materiale.
In Trance è il remake del film TV Trance, scritto e diretto da Joe Ahearne nel 2001 il quale sceneggia anche questa nuova versione diretta da Boyle con la consueta ridondanza di stile, ottiche deformanti e colori. Un thriller che ammicca a Hitchcock nello scandagliare la mente umana e ai puzzle ad ingranaggi del cinema di Nolan, Inception (2010) soprattutto, per l’abisso logaritmico nel quale affonda, ma senza l’ausilio di effetti speciali stordenti.
Tutto gravita intorno ad un furto spericolato di un capolavoro di Goya, “Streghe nell’aria” Il giovane banditore d’asta Simon (James Mc Avoy) viene colpito alla testa dai rapinatori capitanati da Frank (Vincent Cassel) che però si ripresentano da lui perché il quadro, alla fine non era dove doveva essere – una borsa – e sospettano che li abbia fregati tutti. A causa della botta in testa il ragazzo non ricorda nulla e ricorre alla bellissima ipnotista Elizabeth (Rosario Dawson) per scavalcare il trauma e scoprire dove diavolo sia il quadro prima di essere ammazzato.
Trama inizialmente da thriller adrenalinico ma con un McGuffin , il quadro prezioso, un po’ debole come era debole lo stesso pretesto nel thriller di Guy Ritchie RocknRolla ( 2008)Poi si sprofonda. E nulla è ciò che sembra essere. E’ più curioso che bello questo In Trance, titolo che è una dichiarazione di intenti. La dimensione del sogno nel quale Rosario Dawson immerge il protagonista è labirintica, ossessiva e piena di false piste. La realtà e la trance indotta si fondono in immagini che si palesano e si annullano con l’avanzare della storia assumendo altri significati. Non è semplicissimo seguire tutta la storia, l’attenzione deve sempre essere molto alta e ricordare particolari che poi serviranno a collegare le immagini e le scene seguenti. Come al solito più che la regia, è il montaggio che scandisce i film di Boyle, così che da una situazione di blocco immaginario all’interno di un sogno la ritmica comunque non da tregua allo spettatore a sua volta sprofondato nel labirinto techno pop fatto di ombre e luci contrastanti, grandangoli, pareti lucide e riflettenti che moltiplicano il senso di ogni immagine e al tempo stesso ne ratificano la falsità. In questa sala degli specchi svetta la splendida Rosario Dawson che tra la grafica composta delle scene, taglienti e metalliche, regala un morbido nudo integrale frontale, visione anch’essa onirica, soffice. La sublimazione in realtà materiale delle forme femminili pittoriche settecentesche, nel capolavoro di perfezione che è la Dowson, è la chiave di volta dell’inganno e della manipolazione operata ai danni del protagonista. C’è un parallelismo tra la pittura di Goya, macabra e beffarda, il pittore della mente capace di mostrare l’abisso e le figure archetipiche che lo abitano, e la messa in scena di Boyle. Entrambi mostrano l’incubo da dentro , impongono lo sguardo verso il proprio sé nascosto e rimosso. Manipolazione e rimozione sono chiare fin dall’inizio, il problema è rendere tutte le varianti credibili e mostrarle sullo schermo. E qui iniziano i problemi. Boyle con tutte le migliori intenzioni , non è Goya.
Per quanto sia affascinante la messa in scena, disturbante e dislocante, il film si affida un po’ troppo spesso a flash back esplicativi o ancora peggio a spiegazioni verbali che inficiano un po’ la tenuta del film. E’ come se si uscisse dal sogno dopo aver tanto costruito il comparto onirico per riprendere le fila del racconto e non perdersi, diversamente da quanto accade al protagonista Simon immerso in un liquido ribollire di azioni sciolte tra il reale e l’immaginario. Così ecco che l’immedesimazione a volte viene a meno, e ci si limita a prendere coscienza di ciò che accade, con distacco razionale piuttosto che lasciarsi guidare nella dimensione dell’incubo e questo è un peccato anche alla luce della risoluzione del mistero che si trasforma da una rapina multimilionaria prima, a dramma psicologico poi e ancora in qualcosa d’altro che non è necessario svelare. Tanto, troppo. Troppi colpi di scena, troppi sottolivelli di mistero da indagare per arrivare ad una soluzione finale cervellotica e dispersiva.
Il McGuffin attorno dovrebbe girare tutto quanto , il quadro rubato, risulta alla fin fine troppo debole ed è chiaro ad un certo punto della storia, quanto questo sia palese. Peccato.
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