Regia di Danny Boyle vedi scheda film
Il peloso esercizio di stile di Danny Boyle.
All'ultimo, definitivo letale colpo di scena, dopo che già ce ne sono stati una buona disgustosa dozzina, quasi si stenta a credere che partano, come per grazia ricevuta, i titoli di coda. Pensi che, dopotutto, la dannata subdola presa per il culo - ché di questo si tratta - possa ancora continuare.
Non resta che uscire, anzi scappare, dalla sala. La tazza del water attende fiduciosa.
In Trance gioca d’azzardo, inganna, bara, si compiace dei suoi “ingegnosi” cianciosi espedienti narrativi, della sua elegantissima furba confezione. Ma gli arzigogoli, le finiture pregiate, i motivi fulgidi e (apparentemente) originali esistono solo sulla cornice: il contenuto non esiste, è stato strappato via da mani ansiose e menti disposte a tutto pur di celare l’assenza.
Insomma, il quadro è una somma(ria) burla.
L'irrefrenabile sequela di false verità, di ricordi (ir)reali e (ri)costruiti, di (s)composizioni psichiche andata e ritorno e ancora andata per destinazioni virtuali, di memorie inceppate interrotte in attesa di disseppellire frammenti dolorosi che però forse celano nuove menzogne e/o nuovi autentici fatti - in sintesi una chirurgica martoriata alienazione indotta per voce suadente e transfert dalle glabre labbra - costituisce una suprema finissima tortuosa orchestrazione alla quale, pur con le migliori intenzioni e concedendo le dovute attenuanti generiche, è impossibile credere. Nemmeno per un istante.
Se in Inception (più o meno giustamente tirato in ballo) il racconto si sviluppa in maniera semplice nonostante la complessità della trama dischiudendo un piano dentro un piano dentro un altro ancora e così via, nel film di Boyle i piani si contorcono, si (e ci) confondono, si masturbano a vicenda in un esaltato trastullamento che vorrebbe tanto essere intelligente e colto ed invece è un farfugliante e ingarbugliato susseguirsi di tortuosi colpi ad effetto (solo che l’effetto alla fine è quello di irritare, a livelli davvero elevati). In più - piccolissimo particolare - la pellicola di Nolan si svolge attorno a presupposti manifestamente sci-fi, laddove In Trance pretende di essere assolutamente realistica (seppure tramite le ovvie concessioni del genere di appartenenza). Fallendo.
Per Danny Boyle ogni cosa sembra ammessa: le svolte narrative, le rivelazioni, i colpi di scena potrebbero durare all’infinito, perché non sono sorretti da un solido senso logico, in quello che in definitiva risulta un accumulo specioso e ostentato di artifici, peraltro atti altresì a disinnescare le tante incongruenze; con l’assurda e autoassolutoria pretesa che, tanto, è tutta una geniale macchinazione con facoltà di onniscienza e preveggenza, quantunque partorita da banali istanze da revenge movie.
Geni(t)ale, appunto.
Quindi l’obiettivo, ambizioso, palese, di In Trance e del suo principale responsabile, è il raggiungimento della perfezione. La perfezione della vagina rasata. Come a voler essere un moderno spartiacque, un prima e dopo la Maya Desnuda di Goya del thriller.
Bersaglio mancato: quello di Mr. Boyle si rivela tutt’al più un peloso esercizio di stile.
E, per inciso, non me ne frega nulla di rivedere il film per cercare di sbrogliare i fili della matassa e illuminarmi d’immenso per le brillanti (??) soluzioni di sceneggiatura.
Così come non m’interessano le “prove” della “esitenza” registica (virtuosismi, inquadrature inclinate, andirivieni temporali e viaggi nella mente), esibita come (residuale) visione delle riflessioni sul mezzo e come (tronfio) ritratto dell’estasi trascinata e manipolata. Ancora, non m’interessano gli sfoggi fatui di cultura pittorica (le citazioni si sprecano, da Rembrandt a Caravaggio a Van Gogh e così via), le buone interpretazioni degli attori (il più coinvolto e sballottato è il povero James McAvoy), la fotografia di lusso, il montaggio coerente, la musica onnipresente - ora pulsante ora insinuante ora martellante - a sottolineare e istigare i differenti stati di alterazione psicotica.
No, le malefatte e le balle non si possono coprire né giustificare, figuriamoci perdonare.
Semmai si potrebbero (vorrebbero) cancellare, rispondendo in tal modo alla domanda che chiude il film fatta dalla magnifica munifica Rosario Dawson - la “perfezione” di cui sopra, inquadrata in primissimo piano - (e con la speranza di trovare un’altra ipnotista dello stesso meraviglioso stampo): «vuoi ricordare oppure preferisci dimenticare?».
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