Regia di Danny Boyle vedi scheda film
Quale il legame tra una storia d’amore (o presunta tale) il furto di un celebre quadro di Goya (“il primo pittore della mente”) ed una full immersion in sedute d’ipno(si)terapia? Al singolo spettatore l’arduo mica tanto, piuttosto assai gustoso, onore di unire con la (forza della) mente la miriade di puntini - disseminati nella vastità ruggente e affascinante del grande schermo di una sala buia (sorprendentemente, fortunatamente vacante) - che ne svelano l’arzigogolato ma non troppo, originale non proprio, coinvolgente di sicuro, disegno finale che il marchio di fabbrica Boyle vuole accattivante e splendidamente confezionato, agghindato da un soundtrack indovinato, ‘sensoriale e visionario’ come il regista di Trainspotting ci ha oramai abituati, impreziosito da un ritmo sostenuto che predilige la velocità alla staticità o lentezza nel raccontare per immagini (grazie anche ad un montaggio serrato ed efficace), che azzera i tempi morti, salvo decelerare laddove è richiesta la sospensione dell’azione vorticosa, il suo febbrile procedere ‘per gradi’, a rivelare infinite matriosche/verità, l’una incastonata nell’altra, l’una diretta conseguenza dell’altra, tra ipotesi di complotto e spiazzanti depistaggi come sceneggiatura impone. Frenesia e caos solo apparenti in questo film stilisticamente ricercato, riuscito riflesso formale degli avviluppati labirinti della mente (la ripresa panoramica della ragnatela autostradale), dei suoi sconquassi e stati di alterazione successivi alla classica ‘brutta botta in testa’. Dove trova spazio la giusta dose di tensione necessaria ad oliare un meccanismo magnificamente avviato, capace di assumere altresì una felpata andatura rilassata seppur vibrante della sensualità vellutata di una splendida e conturbante Rosario Dawson (che sia vestita o denudata ‘alla radice’), perno centrale intorno cui gira quest’ultima fatica degna di merito di un cineasta che come pochi ha saputo esprimere, lontano da pretese autoriali elitarie, il convulso sfrenato vuoto esistenziale e quel sottile indefinito malessere che caratterizza i nostri tempi. Cos’è allora In Trance ? Heist movie, thriller psicologico, revenge movie, un Se mi lasci ti cancello + Codice 46 passando per Inception - senza il rigore logico delle sue geometrie - declinato secondo la personalissima ottica adrenalinica allucinata e al contempo lucidissima del nostro. Ma è, prima di ogni definizione ‘etichettatrice’, un film - sempre lo stesso film - di Danny Boyle. E come tale il centro del suo cinema è l’uomo, rappresentato in tutta la sua umana imperfezione (fragilità, debolezze, vizi, dipendenza, individualismo estremo, distruzione ed autodistruzione) ma anche in quegli slanci vitali, insondabili e incommensurabili, per mezzo dei quali, calato in una situazione estrema, si fa artefice di imprese ‘titaniche’, eccezionali, incredibili, umanamente impossibili. É il prodotto del suo passato (dei suoi ricordi, del suo vissuto), vive nel presente e già si proietta nel futuro. Sospeso tra la tentazione di annullarsi e il desiderio di rivendicare il proprio posto sulla terra, tra la voglia incontenibile di divincolarsi dal mondo reale e l’intima speranza di poter farne parte, tra la fuga ed il ritorno a casa, l’uomo ritratto da Danny Boyle è un funambolo senza meta, in perenne bilico tra sogno e realtà, un eterno irrequieto insoddisfatto ragazzo che rifugiandosi nella calma apparente rassicurante idilliaca di paradisi artificiali dal multiforme aspetto proverà sulla sua pelle (dura) gli effetti devastanti di quell’avida affannosa corsa di una vita verso un ingannevole mondo ideale che, semplicemente, non esiste.
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