Regia di José Padilha vedi scheda film
Anche “Robocop” (1987) inevitabilmente doveva avere il suo remake (visti i tempi …), che chiaramente non poteva allinearsi a quanto realizzato a suo tempo da Paul Verhoeven (probabilmente oggi lo avrebbero cassato ancor prima di passare dal via), che cerca il suo equilibrio tra l’esigenza di piacere ad una fascia di pubblico piuttosto larga e quella comunque di non perdere tutta la forza che l’originale possedeva (e possiede).
Non proprio un successone, ne al botteghino (almeno relativamente, immagino che si aspettassero di più di circa 250 milioni), ne in termini strettamente qualitativi.
Nel 2029, in giro per il globo le guerre sono ormai affidate ai robot, ma gli americani non vogliono che lo stesso avvenga per la sicurezza nelle loro strade, desiderando maggiore umanità.
Il magnate Raymond Sellars (Micheal Keaton) pensa quindi alla realizzazione di un ibrido macchina-uomo da far ideare al dottor Norton (Gary Oldman).
L’occasione propizia si presenta quando l’agente Murphy (Joel Kinnaman) viene gravemente ferito, i primi risultati sono incoraggianti sotto tutti i punti di vista, ma la convivenza tra uomo e macchina e le esigenze di una società corrotta non tardano a manifestarsi.
Prima avventura americana per il regista brasiliano Josè Padilha (reduce dai due fortunati “Tropa de Elite”), approdato quasi per caso ad una produzione così importante (si era presentato alla Sony per un progetto assai più personale, quando si dice “i casi della vita”) e che più di altre rende inevitabile il paragone con l’originale.
Sicuramente si tratta di un film (assai) meno ispirato, già per questo basta vedere l’attentato a Murphy (scena indimenticabile del film di Paul Verhoeven), adattato, giustamente, ai nostri tempi (mentre allora era avanti sui tempi), con quindi alcuni punti di vista differenti, ma nel suo essere inferiore, ha comunque il merito di aver provato a distanziarsi e quindi offrire qualcosa di diverso.
L’incipit medio orientale è potentissimo (forse il passaggio migliore, per quanto avvenga anzitempo), un’introduzione che mette subito le cose in chiaro sull’impatto dei media (e la figura di Samuel L. Jackson conferisce al mezzo potenza e ricerca di soggezione come gli si conviene), su ciò che vuole la società, o il pubblico, in questo caso non semplici macchine, ma una protezione all’avanguardia, ma non priva di umanità (e magari, perché no, di fallibilità).
Sul libero arbitrio uomo/macchina si gioca tanto, il dibattito sorge esplicito per quanto si poteva fare molto di meglio in questa direttiva, le prese di coscienza seguono una cadenza diversa, più rassicurante all’inizio, contrastata nel mezzo e sul finale vi lascio semplicemente intuire.
Poi si sente il peso della mancanza della spalla femminile, nell’originale interpretata da Nancy Allen, alla quale subentra la moglie interpretata da Abbie Cornish (che cerca sempre di fornire pathos, come la parte richiede) e più in generale tanti personaggi con alle spalle interpreti doc.
Gary Oldman sembra averci preso gusto ad affrontare personaggi positivi (come nel Batman di Nolan), Michael Keaton sembra tornato visibile dopo anni di oblio, Samuel L. Jackson, come già detto, compare saltuariamente, ma nei panni dell’anchorman può far leva sulla sua presenza “ingombrante”, mentre Jackie Earle Haley non manca di manifestare un ghigno assia poco rassicurante.
Non sfonda invece Joel Kinnaman, probabilmente anche soggiogato da un’impalcatura altamente tecnologica, e da una sceneggiatura ondivaga che soprattutto lungo il finale soffre di più di un’approssimazione.
Dunque, questo “RoboCop” ha poco a che vedere col caustico originale (anche nei lampi di umorismo tagliente, qualora quest’ultimo compariva), molto più semplice, ma non per questo povero, spigliato quando regna l’azione (comunque non esagerata, se non per brevi frangenti) e non sempre efficiente altrove.
Blockbuster con la sua dignità, ma con poco genio (anche nella sola componente spettacolare).
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