Regia di José Padilha vedi scheda film
Ci sono sequenze, nel nuovo RoboCop, che lasciano a bocca aperta. Il tonitruante scontro con visori termici in notturna conferma, per esempio, che Padilha potrebbe tenere un corso di regia action a metà dei colleghi americani; l’immagine di ciò che rimane dell’agente Murphy - messo di fronte al proprio cranio unito ai polmoni - dimostra poi la valenza della singola inquadratura nel sintetizzare un processo emotivo; l’incipit in una Teheran sotto sorveglianza robotica è infine degna del miglior immaginario cyberpunk. Ma possono bastare questi (e altri) picchi visivi del regista brasiliano a farci digerire una sceneggiatura imbarazzante? A questo remake manca la complessità di una drammaturgia che vada oltre l’aggiornamento tecnologico di una materia datata 1987. La divisa cambia colore (dal grigio al nero) secondo esigenze ecumeniche e di mercato, mentre Murphy si destreggia in wi-fi e viaggia su una moto 3.0. Ma se l’eroe che conoscevamo era portatore di una profondità legata alla sua natura di uomo-macchina - con corollario di emersioni progressive della coscienza - questo è semplicemente un uomo dentro una macchina, concepita in nome del progresso e del denaro. Il Murphy di Verhoeven subiva lo strazio del martirio, questo esplode sotto casa senza quasi rendersene conto, e non basta qualche sottotesto sul libero arbitrio («Chi preme il grilletto: Murphy o la macchina?») per nobilitare un’operazione più simile al pilot di una serie tv molto costosa che alla complessità del cinema.
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