Regia di Fabio Grassadonia, Antonio Piazza vedi scheda film
Un film muto, o quasi. Come la vita invisibile. Quella di Rita, ad esempio, una ragazza non vedente che rimane sola al mondo dopo l’uccisione del fratello. O quella di Salvo, un giovane killer della mafia, costretto alla clandestinità. Due sconosciuti vengono avvicinati da un delitto. Uno è l’assassino, l’altro la sorella della vittima. Tra i due non ci potrà mai essere amore, Tutt’al più una relazione di assurda, reciproca dipendenza. Il film di Fabio Grassadonia si aggrappa a questo misterioso rapporto, cercando disperatamente di afferrarne il senso. Ne coglie, di nascosto, i singoli attimi, che spia dalla posizione svantaggiata di chi è nelle condizioni di distinguere troppo nettamente tra il bene e il male. Per un osservatore così pieno di certezze, è difficile mettere a fuoco una situazione che è nata proprio dall’impossibilità di capire le ragioni dell’altro. Improvvisamente, ognuno dei due protagonisti scopre di avere di fronte il proprio opposto, un diverso da sé con cui non può fare a meno di confrontarsi. È così che Rita e Salvo diventano l’una ostaggio dell’altro. Per entrambi, la condanna alla solitudine si scioglie con un enigma, il nodo di un rifiuto che si converte, incredibilmente, in un’accettazione incondizionata. Le parole si tengono in disparte, impotenti davanti alla mancanza di logica, ad una negazione che non riesce a dire no, e finisce per abolire la necessità di una risposta. Il gioco procede senza regole, manifestandosi in un’azione disarticolata, che non sa esprimersi e fa ripetutamente a pugni con la ragione. In ciò, da un lato si avverte una certa debolezza della narrazione, che non sa come affrontare l’inesplicabilità, e vi rimane quindi imprigionata; dall’altro lato, la reticenza che confonde le idee è un registro funzionale alla rappresentazione di una realtà intima e follemente visionaria, alla quale le circostanze hanno tarpato le ali, facendola sprofondare in un mortifero abisso di silenzio e paura. L’incomprensibilità grava sulla vicenda come l’afa soffocante in cui è immerso lo scenario, una Palermo oppressa dalla calura estiva e dalla desolazione che accompagna tutte le guerre combattute alla luce del sole, in cui si è tutti complici e tutti rivali, e si muore sempre colpiti a tradimento. Il mondo è una trappola, nella quale il buio offre soltanto un parziale e temporaneo riparo: quello che non salva Rita, e quello che non protegge Salvo, benché costituisca, per entrambi, l’amata dimensione naturale. Il discorso si muove nell’ombra, non alza mai la testa, e il più delle volte tace. Ciò che si dice apertamente è soltanto il male – la minaccia, la menzogna, il finto dolore di una canzone popolare – che insiste a tessere le proprie trame squallidamente studiate e ripetitive. Il resto è sottinteso, vero benché (o proprio perché) libero da finalità plausibili. È una frase interrotta che inciampa nella propria sintassi, povera di strutture e di significati. E rimane incollata addosso, a chi non ha potuto decifrarla, come il segno di uno sguardo intenso e penetrante che non tradisce alcuna emozione.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta