Regia di Emma Dante vedi scheda film
Fa un caldo brutale, a Palermo. Impastato di polvere, non lo leggi sui volti prosciugati degli uomini ma lo senti nelle urla dei bambini, sulle palpebre appesantite delle donne. Samira ha gli occhi spalancati, specchio vivo di un’anima uccisa da anni e calpestata ogni giorno: avvinghiata come un rapace al volante della Punto, guarda avanti ma vede solo indietro. È domenica, prima di salire in macchina si è stesa sulla tomba della figlia. Rosa ha gli occhi bassi, puntati come lucciole furtive sul taccuino dove la compagna Clara disegna il suo profilo, sfuggente. Rosa e Clara stanno andando a un matrimonio ma il loro rapporto si è consumato, mangiato dai fantasmi che impestano la memoria della prima e proprio tra queste strade sicule riemergono con prepotenza. La via sta nella testa, dice Emma Dante senza paura di mostrarlo fin troppo apertamente, allargando la carreggiata quando l’obiettivo si allontana dalle protagoniste. Incastrate in direzione ostinata e contraria sulla stessa strada geograficamente strettissima, un doppio senso che si offre ridicolo al nostro sguardo eppure nessuno dei suoi abitanti ci ride né ci piange più. A Via Castellana Bandiera le persone si scelgono il numero civico, e fa niente se il dirimpettaio ce l’ha di diritto. Hanno tutti ragione, dice una signora del luogo alla straniera Clara/Alba Rohrwacher. Rosa/Emma Dante c’è nata, a Palermo, e Samira che pulsa di dolore negli occhi lucidi e fermi di Elena Cotta, giustissima Coppa Volpi a Venezia 2013, ci è arrivata quando la figlia ha sposato il meschino Calafiore, e adesso vi è in gabbia. Il duello tra Rosa e Samira è una tragedia annunciata, il coro è una folla di uomini vili che sbirciano dalle finestre e speculano sul dramma che avanza nell’immobilità ferrea delle donne rivali. Via Castellana Bandiera è una sfida cinematografica coraggiosa e un film che (si) divide. Trova la peculiarità narrativa in una storia dannatamente universale, attacca la macchina da presa ai dettagli del corpo che lascia filtrare spiragli di paesaggio accidentale come in un documentario sulle ombre più nere dell’essere umano. Di contro, costruisce una scena/palco dove i cani randagi trovano la collocazione (in)naturale nei loculi vuoti del cimitero (quanta pietà sgranata, in tanta violenza sottesa). Fa traboccare il vaso della metafora necessaria quando indugia sulla via infine sgombra e la riempie di figure che entrano ed escono dal campo: proiettandoci verso un precipizio etico di cui non fornisce le misure, ma delinea marcatamente i contorni.
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