Regia di John Carney vedi scheda film
Se la musica è una componente fondamentale nella costruzione del linguaggio cinematografico, è pur vero che la sua colonna sonora può essere usata, a seconda dei casi in funzione drammaturgia, sottolineando così la temperatura emotiva di un particolare passaggio scenico, oppure diventare essa stessa oggetto privilegiato dell’indagine filmica. In maniera discreta ma comunque preminente entrambe le caratteristiche agli occhi dello spettatore in “Tutto può cambiare”, commedia sentimentale con sfumature drammatiche che racconta la precarietà esistenziale di due tipi umani, Dan e Greta, caduti in disgrazia per eccesso d’altruismo e finalmente decisi a risollevarsi unendo le risorse di un talento genuino ma misconosciuto nella realizzazione del disco che dovrebbe rilanciarne le ambizioni personali e di carriera. Una scommessa che ha il sapore della favola per le caratteristiche di vulnerabilità delle parti in causa (Dan è un produttore discografico che vive sugli allori di un successo ormai lontano, Greta una cantante alla sua prima, importante verifica) e per una scenografia umana e geografica capace di assecondare la purezza dei protagonisti, attraverso squarci urbani di assoluta empatia. Come capita quando, depurata delle sue caratteristiche più frenetiche e commerciali, New York offre al film un atmosfera da “piccolo mondo antico” con le performance canore realizzate tra vicoli e strade del mitico East Village.
“Tutto può cambiare” non si discosta dal tracciato tipico di storie come quella che vede protagonisti Mark e Gretta, in cui, sullo sfondo di un sogno americano - che in questo caso riguarda soprattutto la ragazza, migrante in cerca d’amore e di un pò di successo - volontà e ottimismo riescono a ribaltare la condizione di partenza, sostituendo la paura di non farcela in altrettanti attestati di fiducia e di autostima. Una prevedibilità che si stempera in parte quando il film decide di rinunciare all’ accumulazione degli aspetti più spettacolari e sorprendenti, normalmente utilizzati dalle produzioni mainstream, a favore di una narrazione costruita sui mezzi toni e su un intimismo favorito dalle belle interpretazioni di Mark Ruffalo, e soprattutto di Kiera Knightley, assolutamente credibile in un ruolo "musicale"che fonde determinazione e fragilità, ed al quale l’attrice inglese fornisce la dose di sensibilità necessaria a realizzare quell’empatia che costituisce il punto di forza di un film altrimenti normale.
(icinemaniaci.blogspot.com)
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