Regia di John Pogue vedi scheda film
Lo scontro tra scienza e occulto. L’esperimento decentrato in una villa isolata. La paziente traumatizzata, forse posseduta, chiamata a salvarsi esternalizzando l’origine del male. Narrazioni già viste, già raccontate, anche se condite con l’espediente della storia vera. Eppure questa produzione Hammer, ottimizzando costi e idee, possiede una forza in gran parte nuova, capace di saltare gli steccati delle consuetudini e di uno spartito drammaturgico a dir poco risaputo. Potere della messa in quadro e del dialogo tra dispositivi alimentato dal mestierante Pogue, piuttosto ispirato dopo il mediocre Quarantena 2. La partita si gioca tra le riprese oggettive di un narratore onniscente e quelle amatoriali effettuate da McNeil, studente di Oxford coinvolto - assieme ai colleghi Dalton e Abrams - nell’esperimento condotto dal professore e guru Coupland nel 1974 per liberare la giovane Jane dalla presenza fantasmatica (demoniaca?) di Evey, secondo la morale per cui «se si cura un paziente, si cura tutta l’umanità». Negli interstizi tra i due statuti dell’immagine si insinuano i dubbi che Evey possa trascendere la razionalità scientifica, permettendo allo spettatore di assistere alle sue manifestazioni mentre il gruppo di lavoro volta le spalle alla camera. Nonostante gli squilibri di registro (spaventi condensati nel quarto d’ora finale, sequenze-riempitivo per allungare la prima parte), Le origini del male è un horror consapevole e rigoroso, che all’eccesso oppone una solida filologia.
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