Regia di John Pogue vedi scheda film
L’uomo di scienza è simile, se non identico, all’uomo di fede.
Entrambi osservano i dogmi imposti dalla dottrina che hanno scelto di seguire.
Molti di essi ne seguono i dettami ciecamente e febbrilmente, non adottando uno sguardo critico, non ponendosi in un atteggiamento distaccato riguardo l’oggetto del loro interesse.
Sono dei fanatici, che non ammettono un differente punto di vista.
Non lo prendono nemmeno in considerazione.
L’uomo di scienza e l’uomo di fede possono perseguire un identico obiettivo.
È la strada che percorrono che fa la differenza.
Sono le parole utilizzate ad essere diverse.
E così, ‘l’energia negativa che si cova dentro’, per l’uno, corrisponde, per l’altro, a ‘una possessione di natura maligna’.
‘L’emanazione di onde elettromagnetiche’ visibili attraverso una semplice radiografia non è che ‘l’aura’ di cui ognuno è circondato.
‘Il paziente malato’ diventa ‘un indemoniato’.
Per lo scienziato, ‘il carnefice di se stesso’ appare agli occhi del religioso ‘una vittima di satana’.
Se per il primo la presenza di una personalità scissa è una questione psichica, scaturita magari da un trauma violento neonatale o da informazioni inculcate nei primissimi tempi di vita che la psiche rielabora e fa proprie, per il secondo è un fattore esterno a determinarla, una forza malvagia, non di questo mondo, che s’insinua prepotentemente nel corpo del prescelto, dominandolo.
Così la terapia psichica può accostarsi senza troppe differenze ad un esorcismo.
A ben vedere, sono praticamente la stessa cosa.
Sia l’una che l’altro hanno lo scopo di liberare il soggetto sofferente dal male che lo dilania dentro.
Si potrebbe sostenere perfino che la psicoterapia sia l’evoluzione, in termini di civilizzazione dell’umanità, della pratica -oggi quasi del tutto in disuso- dell’esorcismo.
Le origini del male tratta di un ”esperimento scientifico” che possiede tutte le caratteristiche di un esorcismo.
A condurlo, stavolta, nei lontani e sempre affascinanti anni ’70, non è un prete ma un professore di psichiatria, con cattedra alla rinomata università di Oxford. Dapprima interessato alla ‘psicologia anormale’, ovvero alle anomalìe comportamentali, ha, in seguito, indirizzato il suo sguardo su territori ancor meno battuti e impervii, scivolando progressivamente dal terreno solido, concreto della realtà a quello aereo, inconsistente del metafisico. Addentrandosi nella dimensione del paranormale. Venendo a contatto con quegli eventi razionalmente inspiegabili. Conservando, però, inalterato il suo rigore scientifico ed un approccio totalmente raziocinante.
Volendo fornire materiale filmato alle sue ricerche col fine di rendere inconfutabili i risultati raggiunti (e magari aggiudicarsi il premio Nobel), il prof ed un paio di suoi alunni/adepti (nell’ambiente universitario vengono chiamati ‘i silenti’, The Quiet Ones è il titolo originale) invitano un giovane filmaker (oggi verrebbe definito così) a prendere parte all’esperimento in corso: riuscire a liberare una ragazzina dalla sua malattia mentale capace di tramutarsi in (cattiva) telecinesi…
Girato (bene) soprattutto in interni, piuttosto angusti (ma anche i pochi esterni riescono a non disperdere quel clima di aria pesante e cupa accuratamente creato), il film è detentore di un fascino particolare che, sicuramente, per buona parte, deriva dalla scelta di collocare la vicenda negli anni ’70, quando essa -secondo una didascalia iniziale- è realmente avvenuta.
Look seventies che fa sempre un certo effetto e con esso la strumentistica medica a disposizione, obsoleta e limitata nelle prestazioni (rispetto alle tecnologie odierne). Idem per le vecchie e pesanti videocamere, i metri e metri di pellicola spesso scadente che permettono una visione non limpida del girato quotidiano, fotogrammi bruciati, montaggio analogico, proiettori che gracchiano.
Fanno atmosfera, indubbiamente.
E conferiscono corposità e autenticità al ‘footage’ presente nel film.
Per non parlare delle ricerche in biblioteca, i polverosi tomi da sfogliare e consultare, il block notes per appuntarsi le informazioni trovate, tutti elementi indispensabili per individuare un certo particolare simbolo… (dura la vita prima di internet).
Tuttavia, è da considerare un’ulteriore motivazione. Voler definire la cornice storica dell’opera potrebbe rispondere alla necessità di far entrare lo spettatore (cinefilo) nello spirito della storia raccontata. Fornendogli quelle particolari coordinate che la rendono subito riconoscibile al sapore. E quindi familiare e, perciò, non respingente.
In quegli anni è ambientato l’arcinoto L’Esorcista di William Friedkin, dove si narra di un’adolescente (anche qui femmina) che si ammala improvvisamente. Sono sempre più evidenti i segni di un forte disturbo comportamentale, forse dovuto a problemi psichici. La ragazza verrà inizialmente sottoposta ad una serie di esami medici (anche qui presenti, e che fanno parte dell’esperimento messo in atto dal professore) ma senza nessun risultato. In seguito, verrà sottoposta ad un rituale esorcistico.
E di certo, Le origini del male propone una situazione simile (ma non identica), rielabora quei toni mesti, gli umori cupi, le atmosfere sinistre e fa sue quel carico di sensazioni sgradevoli e inquietanti di un titolo che ha fatto scuola, e che, soprattutto oggi, pare rivelarsi imprescindibile per tutte le recenti pellicole a tema demoniaco o presunto tale.
Le origini del male si avvale di un buon montaggio, di improvvisi per quanto previsti ma mai prevedibili ‘’bus’’, che almeno un paio di volte fanno sobbalzare seriamente sulla poltrona.
Il ciak battuto con le mani a inizio scena in più scene, per esempio, o il rumore (per un nanosecondo indecifrabile) di una bottiglia stappata.
Orrore lasciato fuori quadro, intuito più che visto, una certa ambiguità di fondo e tensione sottile e bene intessuta che non lascia tranquillo lo spettatore, portandolo a spaziare con l’immaginazione, ad aspettarsi qualsiasi cosa gli passi per la mente e che la pellicola, in verità, sotto sotto suggerisce.
Riuscita, poi, la contaminazione tra mdp e camera a mano. Quest’ultima utilizzata nei momenti clou, quelli più concitati e ad alto tasso adrenalinico. Necessaria anche per sentirci parte del gruppo, nel ruolo di spettatori presenti silenti ma non indifferenti all’esperimento scientifico.
Coloro che verranno dopo classificheranno i suoi eventuali superstiti come visionari pazzi assassini, perché ancora una volta l’Imponderabile gioca al meglio e gioca facile le sue carte: conosce la natura umana e terrena, il nostro bisogno di razionalizzare, ne comprende i limiti e le paure.
E se ne serve per non estinguersi.
Contagioso come un virus, continua a circolare invisibile e indisturbato, a proliferare, mietendo vittime necessarie alla sua sopravvivenza.
Le origini del male non va da nessuna parte. Non offre nè impone una soluzione, ma lascia allo spettatore la libertà di interpretare gli eventi che scorrono sullo schermo secondo la propria ottica, la propria forma mentis.
Si limita soltanto a proporre l’eterno conflitto tra scienza e religione.
E, in tutta onestà, non è cosa da poco.
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