Regia di Henry Alex Rubin vedi scheda film
Mi soffermo un po’ sulla trama per fare il punto di quel che ho visto. Tre o quattro storie che bene o male si intrecciano. Praticamente abbiamo due coniugi che hanno perso il loro bambino e non riescono a condividere il lutto, e ciascuno si immerge nella sua routine, il marito in un lavoro d’ufficio frustrante e la moglie in una chat per confrontarsi nella virtualità con altri che hanno vissuto il dolore della perdita. Poi abbiamo un’altra famiglia: un avvocato incollato sempre al cellulare, senza mai comunicare in modo efficace con la moglie e i suoi figli, i quali, a loro volta, sono presi nelle loro passioni, in particolare uno di questi, solitario e chiuso in se stesso, è appassionato di musica e la riproduce nel suo computer. Poi c’è un vedovo ex poliziotto che lavora come detective privato contro i crimini informatici, mentre il suo bambino preadolescente ne sta commettendo uno con un suo coetaneo alle spese del ragazzo appassionato di musica, lanciandogli messaggi di adescamento con il falso profilo di una ragazza che gli visiona il suo corpo nudo e così il ragazzo, orami innamorato del profilo, fa altrettanto, diventando bersaglio di derisione di tutta la scuola grazie alla sua immagine che circola in tutti gli smartphone. Nella prima parte del film, attraverso un tono documentaristico, vengono dunque segnalati i mali della tecnica a scapito delle relazioni. Tutta la virtualità del web 2.0 non fa altro che evidenziare la solitudine reale dei personaggi: coniugi che non si comprendono, genitori che non sanno nulla dei propri figli, figli allo sbaraglio, dispersi nel loro mondo ovattato. In più c’è anche la giornalista che vuole a tutti i costi fare uno scoop a un adolescente minorenne che si prostituisce in rete. Insomma di materiale ce n’è. Poi queste storie bene o male si intersecano, perché uno dei due coetanei che bersaglia il ragazzo con il falso profilo è il figlio dell’ex poliziotto, il quale a sua volta si interessa del furto di identità subito dai coniugi in lutto, e a sua volta se la dovrà vedere con il padre avvocato del ragazzo appassionato di musica finito all’ospedale per tentato suicidio. L’altra storia, invece, della giornalista con il minorenne che si prostituisce, va per conto suo, ma sempre con le stesse caratteristiche fondamentali: cercare il tornaconto nella solitudine. Infatti, ogni storia è giocata sull’assenza e sull’egoismo. I coniugi sono alla deriva, lui continua a giocare di nascosto ai videopoker mentre lei parla male della sua relazione con il marito nella chat del lutto, nella quale subisce il furto di identità con chiusura del conto corrente. Il detective è una figura che pensa soltanto alla sua bravura professionale, non ha alcuna fiducia nel figlio, e il figlio, del resto, non ha alcuna fiducia nel padre. La giornalista avvicina il minorenne, vuole redimerlo, ma in fondo lo fa perché si sente in colpa di averlo usato per il suo scoop giornalistico. L’avvocato, di fronte al figlio che ha tentato il suicidio, pensa solo di scoprire il colpevole, e si sente in diritto di non soffermarsi molto sui dolori famigliari. Poi a un certo punto, questi personaggi che lottano contro le avversità, riscoprono il loro cuore e il loro mondo: l’avvocato dopo essersi preso a botte con il detective e riconciliatosi, se ne torna dalla famiglia, dicendo che solo essa è tutto quel che ama; i coniugi in lutto, mentre vanno a scovare la persona che ha compiuto il furto di identità, si riscoprono ex militari che erano, e iniziano a provare quell’amore eroico che va oltre la perdita del loro bambino e dei beni economici. Insomma tutto si rimette a posto… E il pubblico? Il pubblico fino a che punto può immedesimarsi in queste storie? Il pubblico sta a casa a vedere la televisione, a scrivere in rete, a parlare con il vicino, con l’amico… e tante altre cose. Le storie proposte tutte mostruosamente finte, di plastica, virtuali, anche se vogliono essere spacciate con esemplarità documentaristica autoriale secondo una didattica moralistica di corretto uso dei new media. E’ sicuramente un film che prima o poi uscirà su Rai 1. Ma questo è cinema, cinema d’autore, e il cinema deve ben guardarsi dal prendere vicoli così autolesionisti in un momento in cui c’è poco da scherzare per la sua sopravvivenza.
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