Regia di Henry Alex Rubin vedi scheda film
Disconnect è un horror. Nel senso che perturba e inquieta. Anche se più nel contenuto che nella forma. Il film di Henry Alex Rubin mette in scena una generazione ormai allo sfascio, irrimediabile. La online generation, con la sua perpetua identità condivisa, o più identità fittizie, fa rima con una nolimits generation che nel corto circuito tra reale e irreale, possibile e impossibile, lecito e illecito, annulla gli orizzonti culturali del mondo civile, sfibra la consistenza del tessuto sociale, regole e consuetudini del vivere etico, e affonda l’umanità nella triste deriva fascistoide in cui e per cui l’individuo, il soggetto che agisce, può permettersi tutto quello che vuole, oltre i limiti dell’umana convivenza. Libertà diventa sinonimo di sopruso e umiliazione, dominio e manipolazione dell’altro.
Attraverso la messa in scena di un dramma famigliare borghese e un linguaggio cinematografico che sceglie la camera a mano, le sfocature, i tagli documentaristici per percepire il disagio reale del quotidiano, il regista ci introduce in piccole vite spezzate mordendo il nostro stomaco con grosse tenaglie. La tensione non è dovuta alla suspense per una capitolazione finale che tutti ci aspettiamo, quanto piuttosto agli argomenti tra lo scabroso e il doloroso che in qualche modo coinvolgono ognuno di noi. Da chi si è fatto clonare carta di credito e identità e ha così perso ogni cosa, compresa la casa, a chi per necessità o vizio si mette online per performance sessuali a pagamento, fino a chi ha la brillante presunzione di potere su ogni cosa e manda un ragazzino all’ospedale per tentato suicidio.
Il dato più allarmante, ma più interessante a livello artistico, è la tensione che investe tutti gli attori, ipercinetici, sclerotizzati dalla paura di un abisso senza risalite, tra cui risaltano soprattutto i più giovani. Jonah Bobo e Colin Ford sono perfetti, mentre Max Thieriot è solo corpo, funzionale al ruolo, e Jason Bateman, Alexander Skarsgard e Paula Patton portano sui loro volti e nel loro fisico i segni di un dolore che è soprattutto carattere attoriale che invade la scena. In questo il regista è bravo a dosare il peso di ogni agitazione psicomotoria espressa da ogni personaggio, creando una tensione simile al thrilling, ma modellata sui drammi interiori della domesticità.
L’unico problema del film è la risoluzione del segmento narrativo con protagonista Max Thieriot e Andrea Riseborough. Mentre nelle altre vicende, invece del crollo definitivo nella tragedia oppure del lieto fine riparatore, viene preferito un approccio più realista, anche se sempre positivista, nel segmento dedicato ai teen sexcam performer aleggia una certa ambiguità pericolosa dal punto di vista etico.
Sembrerebbe passare il messaggio che non ci sia niente di male a prostituire i minorenni davanti a una webcam aiutandoli così a rifarsi una vita, strappandoli dalla strada. Mercificare il proprio corpo resta una pratica disumana che innesca una reazione a catena tale per cui si annullano, come i tasselli di un domino, tutti i valori umani che permettono ad un individuo di vivere nel pieno rispetto di sé e della società, soprattutto di vivere in verità e in dignità. Nel momento in cui l’esperienza sessuale, che è esperienza sensibile di primo grado, la più istintiva e naturale che abbiamo, l’unica fonte di verità che possiede l’essere umano, diventa mezzo con cui raggiungere la menzogna, ovvero il lusso e la bella vita, orpelli inutili per l’animale-uomo, allora l’esperienza sessuale viene tradita nella sua essenza.
Non è moralismo, bensì etica. “Ti piace farti le seghe? Ti piacerebbe farti pagare per fartele? Oh sì! Sarebbe una figata!” è la drammatizzazione della menzogna, della nullità e della vacuità di una generazione terminale. Questi ragazzini, minorenni come maggiorenni, non sono nessuno fino a quando non possiedono l’oggetto firmato, l’oggetto di lusso che da loro parvenza di esistenza, ma in realtà non esistono. Non sono niente. Non sono nulla. Non valgono nulla. Sono belli, ma inutili. Non valgono un euro. E il film di Rubin li “disconnette” clamorosamente in un crescendo di dramma agonico salvando sul finale la speranza di un cambiamento.
Cambiamento che il finale della vicenda sui teen sexcam performer si mangia senza speranze, inglobando anche tutte le buone intenzioni del film seminate qua e là, tra cui l’indice puntato sulla rete globale e i social network che hanno di fatto disfatto le famiglie e creato mostri. Basterebbe soffermarsi sugli scarti domestici di questa società interconnessa: tutti vittime e carnefici di una incomunicabilità oggi ormai patologica che si fiondano sui loro dispositivi tecnologici a chattare e confidarsi con un profilo, sterile e privo di umanità, pure fake nella maggioranza dei casi, credendo di trovare risposte e qualcosa di simile al calore umano, ma che invece finiscono per dissociarsi dal mondo e da se stessi.
Felice di essere nato con un’altra generazione, che fa sesso non per soldi, ma per il piacere di farlo. E il lusso lo lascia ai cani.
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