Regia di Bruno Oliviero vedi scheda film
A parte il titolo - la stuzzicante analogia con IL FATTORE UMANO di Graham Greene - per molte buone ragioni attendevo con impazienza l'uscita di questo film; l'ambientazione milanese per cominciare: amo la mia città e mi vanto di conoscerla bene. E il cast, formato da eccellenti attori di solida formazione teatrale, alcuni dei quali è rarissimo vedere al cinema. Ho poi ereditato da mia madre un amore incondizionato per l'opera di Giorgio Scerbanenco, maestro di analisi psicologica che in centinaia di racconti – molti brevi, alcuni brevissimi, ma tutti miracolosamente ricchi e profondi - ci ha mostrato con umanissima pietà una città postbellica non così diversa da quella attuale: a quello stile e a quelle atmosfere sosteneva di essersi ispirato l'autore Bruno Oliviero. Il quale è invece riuscito nella titanica impresa di rendere orribile una Milano estiva e lussureggiante, e degli inguardabili e inascoltabili cani due dei migliori attori della scena italiana. E' stata perciò una delusione cocentissima, ai limiti della sofferenza, quella che ho provato per 83 interminabili minuti (giuro, pensavo fossero almeno 2 ore), passati per davvero troppo tempo in auto, in silenzio, a guardar fuori dai finestrini in giro per la città.
Un ottimo poliziotto della Omicidi – l'Ispettore Monaco/Silvio Orlando – prostrato dalla morte della moglie rifiuta ormai da anni di andare a lavorare sul campo, di avere a che fare con morti e sopravvissuti: la sua scena del crimine è una scrivania coperta di foto, testimonianze, incartamenti. Il suo superiore/Renato Sarti l'ha sempre assecondato, ma ora basta: è stato assassinato ferocemente un noto e chiacchierato imprenditore, per di più amico personale del Prefetto, e lui ha bisogno della collaborazione attiva del suo uomo migliore. Il quale ha anche problemi a casa: la figlia sedicenne Lidia/Alice Raffaelli, trascurata dal padre e invischiata in “cattive compagnie”, viene beccata in un campetto di periferia a sparare alle bottiglie con una pistola sottratta al padre. Il quale in men che non si dica recupera una prova fondamentale (uno scontrino di boutique) sotto il divano della vittima e si ritrova, angosciato, di fronte al coinvolgimento della figlia nella morte di quello che si scopre essere stato un vecchio cocainomane pedofilo. La moglie/Sandra Ceccarelli era al corrente dei suoi vizi, ma ha sempre taciuto. Monaco cerca di appoggiarsi al fido aiutante Levi/Giuseppe Battiston, ma sarà lui a dover decidere se agire da poliziotto o da padre.
Mi auguro che nella realtà i nostri agenti della scientifica lavorino meglio di quelli rappresentati qui: perquisizioni senza guanti e senza guardare sotto i mobili, niente perizie balistiche, Dna questo sconosciuto, il medico legale che deve essere sollecitato a controllare se il morto, rinvenuto in piena notte nudo in un lago di sangue, ha avuto rapporti sessuali prima di morire. In un film di 20 anni fa non ci avrebbe badato nessuno, oggi è grave trascuratezza. A queste vanno aggiunte altre sciatterie: in un film girato palesemente a luglio-agosto (strade semideserte, passanti in abiti da spiaggia e giardini rigogliosi) come mai Lidia va quotidianamente al liceo? E visto che il regista sembra tenerci così tanto a mostrarci Milano, che accidenti di percorso fa se passa da corso XXII Marzo per andare da Rozzano alla Questura, se non per un bel product placement del maxischermo-del-Coin-il-più-grande-d'Europa?
Il documentarista Bruno Oliviero, al suo debutto nel cinema di finzione, sbaglia clamorosamente tutto: con velleità autoriali che non sono evidentemente nelle sue corde ci infligge inutili ralenti, inquadrature sghembe, fastidiose macchine a mano, interminabili silenzi, lunghe e superflue riprese notturne, un pessimo suono in presa diretta. Per qualche misteriosa ragione per la parte di Lidia, potendo scegliere tra molte giovani e brave attrici, tra le allieve della prestigiosa Scuola Paolo Grassi è andato a pescare... una ballerina: fresca, senz'altro, ma totalmente incapace di recitare. Per non parlare del personaggio stesso di Lidia: un'adolescente imbronciata, lagnosa, foruncolosa, spettinata e malissimo vestita, assolutamente non credibile come aspirante Lolita a caccia di ricconi, circondata come sarebbe, in discoteca, da elegantissime e plasticatissime simil-Noemi.
Il peccato più grave di Oliviero è però quello che ha commesso contro il Dio della recitazione: bisogna davvero essere perversamente geniali per far recitare così male due mostri di bravura come Silvio Orlando e Giuseppe Battiston. Non sono certo l'unica a riconoscerli come due fra i migliori attori italiani – li ho rivisti negli anni scorsi anche a teatro, Orlando in IL NIPOTE DI RAMEAU, Battiston in un monologo nella parte di Orson Welles e in un imprevedibilmente meraviglioso recital di poesie di Pascoli (!): una gioia per gli occhi e le orecchie. Qui invece sono irriconoscibili: ingessati, ai limiti dell'autismo, probabilmente imbarazzati per la pochezza della storia e la pessima qualità del copione.
Dispiace che fra gli autori di tale scempio ci sia Doriana Leondeff, premiatissima sceneggiatrice per i migliori registi italiani, Soldini, Calopresti, Archibugi, Mazzacurati. Nessuna traccia qui della magica leggerezza di PANE E TULIPANI, del solido, quasi spietato realismo di GIORNI E NUVOLE e LA GIUSTA DISTANZA, della passionale carnalità di COSA VOGLIO DI PIU'. Già avevo percepito sintomi di grave decadenza in IL COMANDANTE E LA CICOGNA, ma qui sprofondiamo nel baratro: un copione di non più di 20 pagine, battute di sconcertante banalità - ci è stato risparmiato “Stiamo indagando in tutte le direzioni” ma il livello è quello - scritte usando un vocabolario di 500 parole. Roba da far inorridire anche il più indurito sceneggiatore di poliziotteschi di serie Z degli anni '70.
Insomma, sono uscita dal cinema non tanto delusa quando davvero arrabbiata. E' una vera porcheria, non buttate i soldi per andarlo a vedere.
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