Regia di Seyfi Teoman vedi scheda film
Tatil Kitabi è il libro contenente i compiti per le vacanze. È il testo sul quale il piccolo Ali non potrà studiare, dato che gli è stato rubato da un suo compagno subito dopo l’uscita dalla scuola. L’estate saprà però proporgli una sfida ben più grande, che lo farà crescere più di qualsiasi esercizio da svolgere con carta e penna. Ali e suo fratello maggiore Veysel sono in conflitto col padre Mustafa, che vorrebbe decidere tutto al posto loro, ostacolando la loro felicità. Ma non sarà questa la prova più difficile da superare. Un evento, tragico ed improvviso, getterà la famiglia nello sconcerto, provocando infine, nelle vite di alcuni dei suoi componenti, decisivi e drastici cambiamenti. Seyfi Teoman - il regista turco autore di due soli film, poiché prematuramente scomparso, nel 2012 – immagina l’umanità come composta di esseri isolati, immersi in un ambiente esteso e complesso, ma nettamente staccati dal contesto. I soggetti sono spesso ripresi nella cornice di paesaggi naturali o urbani, rimanendo quasi sempre in secondo piano, come a sottolineare la distanza che separa il particolare dal generale, la crisi individuale dal caos del mondo. La regia predilige i campi lunghi, e molte volte c’è una porta, una finestra o una vetrina a dividere a metà l’inquadratura, creando una barriera tra i personaggi ed il resto della scena. Le panoramiche sono immagini di una vastità senza carattere, ed interrrompono il racconto con momenti di riflessione sull’immutabile indifferenza che circonda l’agire umano. La città continua a campeggiare, grande, grigia ed imponente, sullo sfondo e, mentre nelle strade riecheggiano gli annunci pubblicitari e le comunicazioni alla cittadinanza, nel silenzio dell’anima si consumano i drammi individuali. Il quadro complessivo è anonimo, ma dentro ad esso vivono, come tanti pezzi sparsi, gli uomini, le donne ed i bambini confinati nel loro minuscolo spicchio di realtà. L’unico elemento unificante è l’assenza, l’enigmatico vuoto intorno alla quale una vicenda frammentaria e statica si mette a ruotare, muovendo i primi passi verso una possibile svolta. Avvolgendosi su se stessa la storia può guardarsi dentro, specchiarsi nelle proprie paure ed allucinazioni, fino ad cominciare a vederci chiaro. Quello che, d’un tratto, viene a mancare, diventa lo spunto per una ricerca dell’inesistente, che si conclude con la scoperta di ciò che non si pensava di poter trovare. Ognuno è solo con le proprie paure, i propri bisogni ed i propri interrogativi, ma il destino gira per tutti allo stesso modo, chiudendo il cerchio in un punto diverso da quello di partenza. In questo film la circolarità è un processo sofferto, che passa attraverso l’incertezza, e pare tracciato dal destino con mano tremolante: è un percorso al buio, che deve fare a meno della visione d’insieme, e quindi rischia ripetutamente di condurci fuori strada. È il filo conduttore di una storia che amalgama la miseria, la delusione, il sospetto, l’incomprensione in una blanda miscela di realismo amaro, eppure poeticamente abbracciato alla mediocrità della vita come un tempo lo fu il cinema italiano. A tratti rivivono, in questo film, fra tanti lirici richiami all’ambiente contadino, l’ingenua sfrontatezza dei ragazzi di strada di Sciuscià e la malinconica sbruffoneria dei giovanotti di borgata in Poveri ma belli. Un omaggio che racchiude la passione per la vita della gente, per quella parte buona che si nasconde in ogni persona e in ogni cosa, ivi compresi i frutti dei crudeli scherzi della sorte.
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