Regia di Dae-seung Kim vedi scheda film
Il cinema erotico coreano non è stato probabilmente considerato fino ad oggi un vero e proprio genere di rilevante interesse sia per la critica ufficiale che per gli spettatori, per lo meno in patria: considerato a torto quasi come un sottogenere (o per meglio dire “un genere inferiore”) è stato il più delle volte ostacolato, quasi emarginato e mantenuto in disparte, spesso anche lontano dalla visibilità internazionale.
Non è ovviamente possibile però fare di ogni erba un fascio e i “distinguo” sono sempre importanti e necessari perché se per una buona fetta di quelle opere forse il giudizio negativo potrebbe essere anche meritato (a noi manca comunque per valutarlo la riprova oggettiva della visione) quello che comunque è certo è che non è sempre strettamente correlato il sesso con la pornografia, e le eccezioni sono spesso rilevanti poiché l’evoluzione del “comune senso del pudore” ci ha fortunatamente liberato da molti tabù e siamo di conseguenza tutti più aperti e permissivi, soprattutto capaci di comprendere la “differenza” e l’importanza di osare. Si dovrebbero quindi riconoscere il merito e soprattutto il coraggio anche a quelle opere (e ai loro registi) che al di là del “genere” (che magari per qualcuno continua a rimanere discutibile) riescono a volare ugualmente in alto e utilizzano lo “scandalo” per parlare di altro e a provare a fare arte, o comunque a qualcosa che ci si avvicina molto, e per quel poco che ho potuto vedere qui a Firenze, ce ne sono tante anche in quella cinematografia (tutt’altro che sporadiche mosche bianche insomma), ed era inevitabile che fosse così, poichè perché l’eros, e di conseguenza anche la sua rappresentazione, occupa comunque un posto importante e tutt’altro che secondario nella vita di ogni essere vivente in tutto il mondo, e non è dunque giusto né lecito, se non fosse altro che per questo, relegarne la sua rappresentazione esclusivamente nel più discutibile (ma a mio avviso non meno rilevante e importante), campo estremo dell’industria della pornografia e del voyeurismo per un eccesso di bigottismo retrogrado del pensiero: “l’impulso erotico e le sue conseguenze sono cruciali – ha scritto infatti a suo tempo su questo tema Richard Collins, critico della rivista Times – e fare l’amore è un’esperienza potente, la più sconvolgente sia dal punto di vista fisico che emotivo nella vita di molti. E garantisce tanta attenzione artistica da parte dei film d’autore che ce ne mostra il potere e la portata, pari a quella che deve poi riservarle il pubblico in sala che deve essere più malleabilmente disponibile a comprenderne il senso e non rimanere esclusivamente in balia delle proprie masturbatorie fantasie adolescenziali.
Ho fatto questa per me necessaria premessa perchè The Concubine (Hugubg: Jewang-Ui Jeab in originale), diretto da Kim Dae-Seung nel 2012 (visto nella sezione K – Eros dell’ultimo Florence Korea Film Festival), rientra a pieno titolo nella categoria delle “intelligenti”opere ad alto tasso erotico che meritano particolare attenzione per la loro importanza anche sul versante artistico e dello stile (non una sterile esibizione di nudi e di amplessi insomma, ma un’opera in cui proprio l’elemento dell’erotismo profuso a piene mani, diventa il cardine narrativo che sorregge una storia molto complessa e appassionante). Un ottimo film in somma che utilizza il nudo, la passione e l’amplesso, per farne il motore necessario a mettere in movimento le drammatiche vicende di un racconto ambientato dentro a un infuocato melodramma che ha le sue radici anche storiche in un passato lontano ma dalla forte valenza politica per più di una ragione anche attuale, che ha come protagonista la giovane Hwa-jeon, poverissima ragazza del suburbio che decide di lasciarsi alle spalle una vita di stenti e di soprusi puntando sulla sua prepotente bellezza che fa la differenza. Si offre così e con successo, come concubina del re, viatico necessario e prezzo necessario da pagare per entrare nella reggia.
Una volta dentro il palazzo, la donna riesce a conquistarsi a poco a poco i favori e le bramose attenzioni di ben due uomini: da una parte il principe Seong-won (come era ovvio e naturale) un megalomane tiranno dedito non solo ai piaceri, ma anche ai vizi offerti dalla vita e dalla sua posizione sociale; dall’altra, il giovane e meno blasonato Kwon-yoo, che per questa sua passione, è disposto davvero a correre il rischio di perdere tutto, vita compresa, ove venisse scoperta la sua tresca segreta e condivisa per la ragazza.
Un vero e proprio triangolo amoroso insomma che finisce per intrecciarsi con un intrigo politico altrettanto appassionante e che trasformerà ben presto il palazzo regale in una trappola infernale da cui sarà molto difficile uscirne indenni (che metterà per questo a repentaglio l’esistenza di tutti i protagonisti) e che ben configura la natura ossessiva di questi intricati rapporti anche sessuali. Sfruttando infatti proprio il potenziale drammatico di una “triangolazione carnale”, oltre che amorosa (di quelle insomma che potremmo definire “roventi di calore”), la pellicola assume la forma di un’opra in cui alla fine è la Storia (quella con la S maiuscola) a diventare “maestra di vita”,[1] e quella che finisce per segnare la sorte dei nostri contendenti rispetto ai tempi e all’epoca di riferimento.
Il regista Kim Dae-seung (classe 1967) cerca infatti di svelare così la natura (anche perversa) di unpotere, che qui ci viene rappresentato come un complesso microcosmo di interessi privati che si sovrappongono e diventano primari rispetto al bene comune (il passare del tempo, l’evoluzione dei costumi, la presunta maggiore consapevolezza della gente, non ha dunque e purtroppo portato molti cambiamenti in questo). Ed è così infatti che proprio il desiderio di possedere la carne, il sesso e l’amore di Hwa-yeon assume il senso (diventa la metafora) di una sconfinata bramosia di onnipotenza che mal si concilia (ieri come oggi) con la rettitudine morale richiesta a chi è chiamato a governare o aspira a farlo. L’intrigo che fa da sfondo all’infuocato e appassionate triangolo finisce allora e per diventare davvero il meccanismo necessario al “disvelamento” di un inganno sociale, un qualcosa insomma capace di trasformare il luogo dell’azione (il palazzo reale) in uno spazio certamente circoscritto che amplifica le frizioni, e in cui le “passioni” e le “ossessioni” vengono talmente esasperate fino a deflagrare all’esterno e dove è proprio l’elemento erotico che ingloba e restituisce con adeguata intensità emotiva e altrettanta forza la “denuncia politica” delle cose, che fa diventare l’opera una vera e propria riflessione critica sull’opacità del potere e sulle miserevoli e corrotte dinamiche che lo nutrono e sostengono.
Vengono insomma utilizzati due generi in apparenza molto distanti fra loro (l’erotico e lo storico-politico) per farli incontrare e magistralmente fondersi fra loro (e non è la prima volta che accade soprattutto nel grande cinema d’autore che proviene dall’oriente) sul comune terreno del dramma, un qualcosa che dà nerbo e vigore alla pellicola sia dal punto di vista narrativo che da quello stilistico (le bellissime, lunghe e sontuose grandi sequenze sublimate nel sesso realizzate con abile ed eccitante maestria dal regista,che ha potuto contare sulla complicità della più che notevole ChoYeu-jeong, splendida, intensa e bravissima protagonista che ha accettato, condiviso e vinto, la sfida della nudità richiesta dall’opera e ha saputo soprattuto restituirci anche attraverso il corpo, la sfaccettata complessità di un personaggio che resta, suo malgrado, sempre al centro della scena. Altrettanto efficaci gli alti due protagonisti che si contendono il possesso della donna interpretati con intelligente aderenza da Kim Dong-wook e Kim Min-joon.
Pastosamente opulenta la splendida fotografia di Hwang Ki-seok, ed altrettanto efficace il supporto del commento musicale affidato a Cho Young-wook.
[1] “Historia magistra vitae” è una frase di incerta origine, ma attribuita da sempre a Cicerone (la citazione completa è : “Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis, ovvero La Storia è vera testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell’antichità.)
Nato nel 1967, Kim Dae-seung si è laureato in “Studi Cinematografici e Teatrali” presso la Chung-Ang University. Ha fatto poi una lunga gavetta durata praticamente dieci anni lavorando come assistente alla regia di Im Kwon-taek, leggendario regista coreano (del quale è diventato l’allievo prediletto) e contribuendo così alla realizzazione di opere importanti come Seopyeonje (1993), Le montagne di Taebaek (1994) e Chunhyang (2000).
Ha fatto il suo debutto alla regia con il melodramma Bungee Jumping di Their Own (2000), un melodramma di fortissima presa che parla di omosessualità e reincarnazione magnificamente interpretato da Lee Byung-hun e Lee Eun-ju al quale nonostante la particolarità un po’ scabrosa per la Corea del soggetto, è stata invece riservata un’accoglienza trionfale non solo dal pubblico, ma anche dalla critica che lo ha classificato come uno dei migliori melodrammi dell’era moderna.
Analogo successo ha riscosso nel 2005 il suo Blood Rain, insolito e travolgente “giallo” ambientato nell’epoca Chosum che fonde insieme thriller e film in costume, con cui si è aggiudicato una caterva di premi e riconoscimenti internazionali.
La sua terza fatica in veste di regista, lo ha portato invece a realizzare nel 2006 Trace of Love (Tracce d’amore) basato sulla storia vera di un disastro (il crollo avvenuto nel 1995 all’interno del un Centro Commerciale di Sampoong nel distretto di Seocho-gu che causò il ferimento di 937 persone e la perdita di oltre 500 vite umane) che esplora le conseguenze dolorose del trauma derivante da quei lutti, oltre alla non facile elaborazione dei sensi di colpa e alla voglia di mantenere viva per lo meno la memoria: una partitura composita che si trasforma in unmelodramma a più voci sullo sfondo di uno struggente paesaggio autunnale che diventa la perfetta cornice della storia.
E’ poi del 2011 il cortometraggio Q & A, girato all’interno di un progetto cumulativo finanziato dalla Commissione nazionale per i diritti umani della Corea del Sud che denuncia la raccolta e il controllo delle informazioni personali e delle conseguenti molestie sessuali perpetrate ai danni delle donne in ambito lavorativo dagli uomini “detentori” del potere, e quindi all’interno di una società fortemente maschilista come quella Coreana, al quale seguirà l’anno immediatamente successivo (il 2012) questo interessante The Concubine ennesimo e indiscusso successo di pubblico e di critica che potrebbe davvero ambire anche a una più capillare distruzione internazionale, Italia compresa,, ben oltre le sue sporadiche apparizioni per il momento almeno da noi limitate ai Festival del settore.
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